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Attualità

LIDIA, STORIA INFINITA

MANIGLIO BOTTI - 22/01/2016

lidiaLo definiremmo un thriller alla Michael Connelly, un “cold case” da risolvere affidato all’intuito e alla tenacia del detective Harry Bosch. Se non fosse invece quella di Lidia Macchi, la studentessa varesina di ventun anni, trovata morta in una radura boschiva dalle parti di Cittiglio il primo giorno dopo l’Epifania del 1987, trafitta da ventinove coltellate, una vicenda che ha squassato una famiglia, una scuola importante di Varese, una comunità ecclesiale, un’intera città.

La ferita – mai chiusa in realtà – è stata riaperta alcuni giorni fa con l’arresto ordinato da magistrati milanesi, e con motivati sospetti di omicidio, di un “giovane” di quarantotto anni, Stefano Binda, di Brebbia. Un vecchio amico di Lidia, s’è detto, forse qualcosa di più. A incastrarlo sarebbe una lettera “inquietante” che il giovane scrisse e fece poi pervenire alla famiglia il 10 gennaio 1987, un sabato gelido e piovoso, proprio il giorno dei solenni funerali in San Vittore della ragazza.

Caso risolto, dunque e finalmente, dopo quasi trent’anni? I resoconti che ne hanno fatto i giornali sono ancora pieni di ombre. Stefano Binda, rinchiuso in carcere, non solo nega di essere l’assassino della ragazza ma anche di avere scritto la lettera, una sorta di poesia in prosa infarcita di citazioni e di riferimenti dell’antico e del nuovo Testamento.

Interrogato poi dal giudice dell’udienza preliminare Anna Giorgetti e dal sostituto procuratore generale presso la Corte d’appello di Milano Carmen Manfredda, che ha oggi in cura l’indagine, s’è avvalso della facoltà di non rispondere. È presumibile che le domande si sarebbero incentrate sulla lettera, sull’alibi che all’epoca il giovane presentò, ma anche su alcune imbarazzanti frasi trovate nei suoi diari di allora: “Stefano sei un barbaro assassino”; “Stefano sei fregato…”.

La lettera, tra il misterioso e l’esoterico, non è una novità, dato che, appunto, se ne ha conoscenza da quasi trent’anni. Ma è solo oggi che una comune amica – di Stefano e forse anche di Lidia – ne ha riconosciuto la grafia, affermando di averne ricevute di simili, inviatele da Stefano. E quindi s’è presentata ai magistrati. Alcune perizie calligrafiche fatte eseguire dai detentori attuali dell’inchiesta indicherebbero l’autore, senza dubbi, in Stefano Binda. Anche se la “firma” non fa scattare automaticamente la responsabilità dell’omicidio.

La storia sembra schiarirsi ma un po’ anche si ingarbuglia. Perché fu proprio il primo detentore dell’inchiesta, il sostituto procuratore della Repubblica a Varese, Agostino Abate, a lavorare su quel documento. Non si sa quali furono le conclusioni cui pervenne. Sta di fatto che per lungo tempo il magistrato concentrò le proprie attenzioni su un religioso, un giovane sacerdote che operava nell’ambito della basilica di San Vittore. Ma non solo per la lettera. C’erano altri indizi, tra cui la storia di un coltello da scout perso e mai più ritrovato (anche stavolta è uscito il racconto di un coltello che sarebbe stato posseduto da un amico di Lidia, ma non si sa chi). Il “don”, che non fu mai ufficialmente inquisito, anche se molto tardi ne è uscito indenne.

Il dottor Abate, in seguito massimo protagonista delle indagini sulla tangentopoli varesina, non è un personaggio simpaticissimo, nemmeno tra i colleghi – e per questa ragione probabilmente ne ha pagato le conseguenze con un trasferimento a Como –, ma è un implacabile “ispettore Javert”, totalmente dedito alla ricerca della verità nel rispetto e nell’applicazione della legge.

Anch’egli, a suo tempo, prese dunque in considerazione la lettera, interrogò forse più di una volta il giovane amico o conoscente di Lidia, scagionandolo infine anche perché esibitore di un alibi (una vacanza con CL) credibile, confortato per altro da amici. I quali, amici, oggi, hanno fatto anche carriera in ambito religioso, uno è divenuto sacerdote. Quell’alibi, tuttavia, non sarebbe più considerato valido. Né le testimonianze.

Ma Stefano e Lidia erano davvero amici o – come s’è ipotizzato – più emotivamente coinvolti l’uno per l’altra? Di lui la ragazza in casa o con gli amici veri sembra però che non avesse mai parlato. Stefano, che è di un anno più giovane di Lidia, aveva pure lui frequentato il liceo Cairoli a Varese. Respinto in seconda, al penultimo anno era passato al classico di Arona per concludere il ciclo di studi in un ambiente a lui più confacente. Sicché quando Lidia fu assassinata era ancora studente liceale, l’ultimo anno. E solo a luglio avrebbe sostenuto la maturità e nell’autunno, dieci mesi dopo il delitto, si sarebbe iscritto all’università, facoltà di filosofia.

Forse, anzi è probabile, Lidia e Stefano s’erano conosciuti nell’ambiente di Comunione e Liberazione, che entrambi bazzicavano. Ma Stefano, dotto e riservato, religioso un po’ fanatico e puntiglioso e nella metà degli Ottanta – a quanto s’è saputo – anche con problemi di eroina non corrisponde né allora né oggi a quel che si dice un ciellino doc. Lidia voleva “redimerlo”? È per questa ragione che aveva acquistato libri sulla droga? Ma, ripetiamo, non ne aveva mai parlato con nessuno?

E proprio la sera della visita di Lidia all’ospedale di Cittiglio all’amica del cuore, malata e ricoverata, aveva taciuto tutto dando forse anche appuntamento a quel ragazzo più giovane e ormai lontano di cui nessuno era a conoscenza e che, neopatentato, s’era presentato al parcheggio dell’ospedale con la Centotrentuno di famiglia? Inutile rimarcare che gli interrogativi qui si sprecano.

Appaiono risibili, poi, anche se il termine in una storia così tragica non è adatto, alcuni particolari, come quello del ritrovamento – pare – nella borsetta di Lidia di una poesia e di una raccolta postuma del suicida Cesare Pavese, “Verrà la morte e avrà i tuoi occhi”, poesia che – così è stato detto – era “un cavallo di battaglia” di Stefano. Cosa che, davvero, serve solo a fare colore e non significa nulla.

Ancora, in merito alla storia, fuoriescono ogni giorno notizie, non si capisce se inventate o se artatamente diffuse, come se dal delitto non fossero passati quasi trent’anni, tipo la presenza di nuove lettere, di un complice e – forse – di una donna… Con queste “nuove” tesserine non si può dire che il puzzle si stia ricomponendo alla perfezione, a meno di altro. Che potrebbe scaturire per esempio addirittura dalla riesumazione del cadavere di Lidia, ventinove anni dopo, alla ricerca di eventuali tracce di Dna estranei nel suo corpo da confrontare con il Dna preso a Stefano durante l’interrogatorio in carcere e alla presenza del proprio avvocato difensore.

E anche, se n’è parlato, qualcosa potrebbe uscire da ricerche standardizzate di Dna, tipo quelle per il caso Yara, per scoprire se e chi tra gli amici di Stefano chiuse la “lettera misteriosa”, visto che lui non sarebbe stato. Insomma, si continua. Perché è probabile che non vi siano certezze, nonostante tutto.

In verità, vetrini con il Dna e altri reperti esistevano. Sono spariti incredibilmente, ufficialmente distrutti, una quindicina di anni fa, perché ormai il tempo trascorso era molto e non c’erano più persone inquisite su cui effettuare i confronti. Se fossero stati mantenuti intatti oggi Stefano Binda o verrebbe subito liberato con scuse o inchiodato da prove inoppugnabili. Non è stato questo, nella nostra città, proprio un bell’esempio di “amministrazione” della giustizia e di fiducia in essa.

L’ex sostituto procuratore della Repubblica di Varese, Agostino Abate, nel suo ufficio di Como, com’è nella sua natura di uomo e di investigatore, tace. E tacciono, in proposito, anche i magistrati milanesi, i quali non si sa se abbiano richiesto un parere al sostituto procuratore varesino che per primo, e in un ambito forse più favorevole, condusse le indagini. Magistrati che pure appaiono fermamente convinti della colpevolezza di Stefano, al punto di chiedergli una confessione liberatoria.

Abate si limita soltanto a osservare con un eccesso di scrupolo che nel caso riaperto da suoi colleghi milanesi rimarrebbe ancora in evidenza la pratica a carico di Giuseppe Piccolomo, l’uomo condannato all’ergastolo per avere ucciso una donna a Cocquio Trevisago e per averle poi tagliato le mani. Le figlie dello stesso Piccolomo lo avevano indicato agli investigatori come un possibile autore dell’assassinio di Lidia. I nuovi sviluppi dell’inchiesta lo scagionerebbero.

Vorremmo sbagliarci, ma non ci sembra ancora di vedere e di leggere le premesse di una chiarificazione definitiva del caso. Ventinove anni dopo. Il nostro pensiero va alla famiglia di Lidia, paziente, tormentata dal dolore vissuto in silenzio, e da un destino crudele, ma che non ha mai finito di credere in una giustizia degli uomini, prima che in quella divina. Che non abbia a soffrire di più.

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