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Pensare il Futuro

CHI SEI, CHE LAVORO FAI?

MARIO AGOSTINELLI - 22/07/2016

Quando incontriamo qualcuno, vogliamo sapere che cosa fa. Il lavoro ha un forte potere di identificazione. Faccio l’operaio, il contadino, l’artigiano, faccio il medico o l’avvocato, sono ingegnere, sono informatico, sono astronauta. E via dicendo. Ma anche: sono disoccupato. Facevo… Ma ora non più. Sono in attesa di lavorare. Oppure: sono pensionato. Farei ma… Purtroppo sono ammalato. Farei ma… il mio lavoro non c’è’ più.

Tanti i lavori, mutevoli, come mutevole la vita umana. Quando sono andato su una metropolitana senza guidatore mi sono detto: quel lavoro, del macchinista, che sognavo da bimbo, non c’è più. Ora il lavoro è quello di progettare, di costruire, o di fare manutenzione, ma non più di guidare”.

Leggo che l’esplorazione spaziale ed i viaggi interplanetari saranno fatti da robot, che l’intervento chirurgico sulla prostata viene meglio se eseguito col bisturi automatico, che Mansour, il leader talebano afgano, è stato ucciso da un drone. Penso che le calcolatrici sono comode, che i computer fanno in un attimo il lavoro di migliaia di uomini… E che stare tante ore in un gabbiotto dell’autostrada a riscuotere i biglietti, quando lo può fare la macchina… Beh! Non c’è partita.

Nonno, che lavoro facevi? Lo potrò fare anch’io? Forse si, rispondo a un nipotino. Ma non sono più sicuro di niente. Ho visto troppi cambiamenti durante la mia vita. Mi occupavo di lavoro, diritti, anche di emozioni di come siamo fatti dentro. Di come stare al lavoro dà dignità, rende cittadini responsabili. Ma che lavoro era? Il sindacalista. Il nipotino lo dice alla maestra e lei lo cataloga come “lavoro strano”.

E allora mi chiedo se e’ davvero un lavoro, se rimarrà nel tempo, o se scomparirà. Se anche i lavoratori e i loro sindacalisti faranno la fine degli esattori dell’autostrada e saranno sostituiti da computer, da robot.

Nella terribile confusione di questi tempi, di questi giorni credo che ci sia una perdita oggettuale e insieme simbolica: il significato del lavoro. Rimane l’angoscia di perdere il lavoro, di rimanere senza ruolo, di essere spossessato dal computer o dalla vecchiaia, ma, soprattutto, di non essere considerato niente, se non per il valore economico – non sociale! – che produci quando hai la “fortuna” di essere al lavoro.

Io rimango della mia idea, che non si può vivere senza lavorare, che il lavoro è necessario per realizzare l’identità, e per completare la personalità. Credo che la domanda “che lavoro fai? Di cosa ti occupi? Che lavoro facevi?” continuerà a esser fatta anche in futuro da tutti i nipoti a tutti i nonni. Ma per rispondere in serenità dovrà cambiare la valorizzazione di quel che fai per il benessere di tutti e non solo per le tasche di chi fa profitto, perché abitare una società non è tenere un conto in banca.

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