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Cultura

UNO STATISTA, ALDO MORO

LIVIO GHIRINGHELLI - 11/11/2016

moroNel rievocare la figura di Aldo Moro (1916-1978) lo si è potuto anche definire il più degasperiano dei dossettiani: effettivamente se Giuseppe Dossetti ha potuto rappresentare l’aspetto utopistico del pensiero sociale cattolico nel dopoguerra (ma era pure dotato sul piano pragmatico di una capacità d’azione efficace), a De Gasperi Moro si è potuto avvicinare per l’opportunità e la riuscita degli interventi di mediazione, l’incisività e la sapienza della funzione direttiva all’interno del Partito e del Governo, la larghezza del disegno progettuale.

 Principale cura di Moro è stata quella di integrare le masse popolari, cattoliche e socialiste, nello Stato al di là d’ogni prevenzione di classe e pretesa di subalternità. La classe liberale nel post Risorgimento non era riuscita a risolvere questo problema (e non l’aveva voluto per miopia) e il processo si era poi involuto con l’affermarsi dello Stato etico totalitario durante il ventennio fascista. Prodromo del secondo Risorgimento era poi stata la Resistenza con l’instaurazione dal 1945 di un regime pluralista, democratico e rappresentativo nel quadro costituzionale. Restava ora l’impegno di stabilire accanto alla centralità dei diritti civili e politici quella dei diritti sociali. In questo progetto, nella sua progressiva realizzazione, al di là degli incidenti anche gravi di percorso, è da rilevare l’importanza del contributo prezioso offerto da Aldo Moro.

Il suo assassinio nel cuore e all’apice della stagione terroristica (la crisi più grave intervenuta nel Paese dopo lo scandalo dell’8 settembre 1943 e lo sfacelo indotto dalla monarchia) è stato oggetto di interpretazioni oscure, complottiste e dietrologiche. Resta che l’attacco al cuore dello Stato proclamato e compiuto dalle Brigate rosse ha visto in Moro il suo bersaglio privilegiato, il più significativo.

Nato a Maglie nel Salento il 23 settembre 1916, dotato di una religiosità profonda, alla cui formazione ha sovrainteso la madre, Aldo Moro cresce e matura la sua militanza per ragioni anagrafiche durante gli anni del regime fascista, partecipando ai Littoriali della cultura e dell’arte nel 1937 e nel 1938. Sul finire del 1938 si laurea in giurisprudenza con il massimo dei voti, avviandosi quindi per la carriera accademica come assistente alla cattedra di Diritto penale.

 Dall’anno accademico 1940-1941 è docente incaricato di Filosofia del diritto. Ma contemporanea è anche la sua esperienza nell’ambito delle Associazioni cattoliche (presidente della Fuci tra il 1939 e il 1942, membro attivo e presidente nel dopoguerra del Movimento dei laureati cattolici: qui assume la direzione di Studium, orientandola secondo una sua specifica sensibilità).

Cruciale è la sua esperienza nei lavori dell’Assemblea costituente, dovendo tra l’altro affrontare questioni come le garanzie da offrire sul piano del pluralismo scolastico e la costituzionalizzazione dei Patti Lateranensi. Come facente parte della Commissione dei settantacinque nell’elaborazione del testo costituzionale si interessa della parte relativa ai diritti e ai doveri dei cittadini. Sviluppa un intenso rapporto con Dossetti. La filosofia del personalismo presiede alle sue preoccupazioni in ordine alla nuova temperie sociale con la rivendicazione della centralità della civiltà del lavoro.

 Purtroppo la rottura dell’alleanza antifascista con l’affermarsi su scala internazionale della guerra fredda fa ritenere alla Dc la Resistenza come un processo concluso. La divisione del mondo in due contrapposte sfere di influenza relega la sinistra socialista e comunista all’opposizione e fuori dal governo. Moro diviene via via sottosegretario agli Esteri dal 1948 al 1950, ministro di Grazia e giustizia dal 1955 al 1957 e dell’Istruzione dal 1957 al 1959, quindi segretario del partito dal 1959 al 1964.

In antitesi alla personalità autoritaria di Amintore Fanfani evita la radicalizzazione delle posizioni in seno al partito. Il tema dell’apertura a sinistra e segnatamente ai socialisti dopo la progressiva emancipazione di questi dai comunisti a seguito dei fatti del 1956 vede in Moro un assoluto protagonista (nel seguire un processo di sviluppo che vede nello Stato l’allargarsi delle basi di consenso alle masse operaie (nel secondo dopoguerra l’integrazione era avvenuta nella direzione delle masse cattoliche). Moro diviene pertanto nel dicembre del1963 presidente del Consiglio, avendo Pietro Nenni come vicepresidente.

Negli anni ’60 e ’70 si determinano cambiamenti epocali nei processi sociali che la classe dirigente si trova ad affrontare: quadro di riferimento il 1968. Si impongono la questione universitaria e quella scolastica, quella operaia e sindacale, lo scontro generazionale e di genere. Nel contempo Moro si accorge della fragilità degli istituti di democrazia rappresentativa da difendere. Di qui lo svilupparsi della strategia dell’attenzione nei riguardi del Partito comunista: non si tratta di una stagione di larghe intese, ma di un’ottica di incanalamento delle dinamiche sociali, pena il loro sfociare nell’eversione.

La crisi monetaria con la fine del sistema di Bretton Woods (costituito nel 1944 con la creazione del Fondo Monetario Internazionale e della Banca internazionale per la ricostruzione e lo sviluppo), lo shock petrolifero del 1973 con le sue conseguenze e le trame eversive di destra e di sinistra hanno ormai assunto dimensioni macroscopiche. Moro, essendo stato quasi ininterrottamente ministro degli Esteri tra il 1969 e il 1974, quindi guida dell’esecutivo, ha avuto la piena capacità politica di cogliere e temere i segni dell’involuzione. Di qui il tragico precipitare degli avvenimenti che lo riguardano.

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