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Società

TRISTEZZA IN MASCHERA

LILIANO FRATTINI - 03/03/2012

Un pensiero al carnevale che è passato, a quella festa che in origine era legata “al banchetto d’addio alla carne” che si celebrava la sera prima del mercoledì delle ceneri. E il significato della parola fa proprio riferimento alla carne, alla forma basso latina “carnem laxare”. Per poi entrare in quaresima. Un saggio del passato, Clemente Merlo, annotava che carnevale era una “mortificazione, la privazione del domani, non un inno ai sensi ma un grido di dolore dell’animalità insoddisfatta che pensa che tutto quel godimento sta per finire”.

Pensatela come volete ma in fondo le maschere ci nascondono un senso di tristezza annullata dalla voglia di divertirsi il più possibile, perché sapevamo che ci sarebbe toccato “fare sacrifici, rinunciare a tante cose” durante il periodo di quaranta giorni prima di Pasqua che era uso viverlo in penitenza, “dalle ceneri al sabato santo” come nel 1353 precisava il Boccaccio. C’è una espressione popolare che riscontra un fastidio, quella che dice: “lungo come la quaresima”.

Ma l’intento di questa premessa è solo quello di puntare l’attenzione sul “senso religioso” che di questi tempi soffre di mancanza di calore e colore. Insomma la maggior parte delle persone, degli italiani svicola davanti all’impegno che questa ricorrenza riveste per i cristiani. Ricordo il cardinale Martini, durante il suo ruolo di arcivescovo di Milano, affermare che “i cristiani in Italia sono una minoranza”, e con il termine cristiani intendeva tutti e tutte coloro che testimoniano la fede con convinzione e continuità.

È una condizione che, a mio modesto parere, va esaminata, approfondita se non si vuole osservare il dito e non la luna. Interessa coloro che credono in Dio, in Gesù Cristo e nello Spirito Santo. Come per i musulmani Allah e il suo profeta Maometto, gli ebrei “Colui che è”, i buddisti l’Illuminato.

Non si tratta di restringere la messa a fuoco alla quaresima, ai suoi riti, ai suoi significati, alle sue regole. Il problema, si usa attualmente dire, è bypassare “il senso religioso” per incrociare il valore della fede, la testimonianza individuale nel Signore, nei suoi comandamenti, nei suoi insegnamenti. Cullarci sul dondolo del senso religioso vuol dire narcotizzarsi, entrare in uno stato di sopore e di torpore che annebbiano la vista impedendoci di guardare lontano.

Ci capita, capita a ognuno di noi di incontrare gente che non crede, che dubita, che irride, che nega ogni idea di religione, di divinità, di mistero. E spesso concludiamo che “è proprio vero, non c’è più in giro il senso religioso, non c’è più religione”. Magari, durante il periodo di quaresima , il credente si riduce a pensare, con nostalgia, alla sempre decrescente regola, quasi scomparsa, di non mangiar carne il venerdì!

La società è perennemente in evoluzione o per moltissimi in involuzione e ci accorgiamo che consolidate abitudini vanno a farsi friggere. Alcune avevano un certo valore, altre erano carta straccia, magari cattive, pessime abitudini, non stiamo ad approfondire. Se cambia il modo di rapportarsi fra gli esseri umani è chiaro che di conseguenza cambia il modo di rapportarsi alle formule religiose, ai riti, alle regole, a quelli che liturgicamente si chiamano precetti.

Riflettevo se non sarebbe più corretto, corrispondente a quello che crediamo, nel campo della fede, precisare davanti al prossimo e con il prossimo che cosa siamo veramente e in che cosa crediamo (non il nostro senso religioso!) e di conseguenza come pratichiamo il nostro credo. Con formule? Con abitudini? Con rassegnazione? Con disimpegno? Con ardore? Ma di solito succede che parliamo di noi come vorremmo vivere il sentimento del nostro credo così non lasciamo trapelare il valore di un messaggio che non è religioso ma di fede nel Risorto.

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