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Presente storico

COME TUSITALA

ENZO R. LAFORGIA - 12/10/2018

L’Isola del Tesoro a villa Mylius

L’Isola del Tesoro a villa Mylius

Non so chi abbia avuto l’idea di proporre L’isola del tesoro come filo conduttore del recente Festival «Nature Urbane», che si è svolto a Varese tra il 20 e il 30 settembre di quest’anno. Non so chi abbia avuto quest’idea, ma mi è sembrata bellissima. Anche se non tutti i lettori mi sono sembrati all’altezza, anche se qualche lettore non sembrava aver mai letto prima il testo che proponeva ad un pubblico numeroso, curioso e preparato. Ma ascoltare le avventure di Jim all’aperto, mentre lo sguardo può spaziare tra alberi, cielo, lago e montagne; ritrovare, dopo tanto tempo, Long John Silver, il vecchio Billy Bones; sentire di nuovo aleggiare l’ombra del terribile Capitano Flint; provare ancora emozione nello scoprire la mappa con il segno che indica il luogo dove si nasconde un fantastico tesoro; ebbene… tutto questo è stato meraviglioso.

Aveva ragione Lella Costa, bravissima lettrice e dalla voce splendida: L’Isola del tesoro è un romanzo maschile e al maschile. E non solo perché la storia si svolge quasi esclusivamente tra maschi. Ma perché, almeno all’epoca in cui ero poco più di un bambino, l’essere un pirata rappresentava un’aspirazione e una fantasia esclusivamente maschili. Soprattutto dopo la messa in onda dell’omonimo sceneggiato televisivo (originariamente trasmesso nel 1959, ma riproposto ancora, credo, negli anni Settanta), che insegnò a tutti la melodia su cui modulare parole sino ad allora solo lette e mai ascoltate: «Quindici uomini… quindici uomini…».

Lo sceneggiato della Rai era ovviamente in bianco e nero e Arnoldo Foà vi interpretava il capitano Smollet. Di Arnoldo Foà, a quel tempo, mi faceva paura la voce. Quando ero molto piccolo, mio padre aveva l’abitudine, la domenica mattina, di farmi sentire su quarantacinque giri poesie interpretate da grandi attori. Tra queste – e mi vengono i brividi ogni volta che me ne ricordo – c’era Alle cinque della sera di Garcia Lorca, letta, appunto, da Arnoldo Foà. Restavo ammutolito e terrorizzato, benché non credo capissi nulla del testo.

Non ricordo quando ho letto per la prima volta il romanzo di Stevenson. Sicuramente, una prima volta mi sarà capitato tra le mani in formato ridotto. Ricordo bene, infatti, che i primi libri che ho potuto rivendicare come libri solo e soltanto “miei” erano di misura più piccola rispetto a quelli che vedevo ben allineati nella biblioteca di famiglia. Erano rilegati da una copertina rigida e colorata e con il dorso azzurro o rosso, con poche illustrazioni. Ma, una volta aperti…, da quei libretti modesti venivano fuori mondi che non avremmo mai immaginato potessero esistere. E non credo di essere stato il solo, da piccolo, a realizzare sui fogli di cartapaglia del salumiere o del fornaio, rubati da un cassetto della cucina dove erano stati riposti ben ripiegati come tanti fazzoletti, delle meravigliose mappe del tesoro. Mappe del tesoro, la cui produzione comportava qualche serio rischio, poiché si era soliti (non credo di essere stato il solo anche in questo) modellarne i bordi sulla fiamma dei fornelli della cucina, con due conseguenze: l’odore di carta bruciata, che immediatamente arrivava alle narici molto lontane, ma anche particolarmente sensibili, dei miei genitori; l’immancabile sgridata o ceffone (tutto dipendeva dalla mia velocità piratesca) che sarebbe seguito. Devo confessarlo: nemmeno il Corsaro nero di Salgàri (ma all’epoca tutti dicevamo Sàlgari) mi aveva colpito tanto. Viaggiare sulla Hispaniola, nascondersi in un barile di mele, partecipare agli scontri seguiti allo sbarco, incontrare – e con che paura! – Ben Gunn… Erano emozioni ben riposte dal tempo, che le letture ad alta voce hanno fatto lentamente riemergere.

Robert Louis Stevenson era un raccontatore di storie. Gli calzò a pennello il nome che vollero dargli gli abitanti delle isole dell’arcipelago di Samoa, dove si era ritirato a vivere: Tusitala, cioè, appunto, raccontatore di storie. Ed ho capito forse per la prima volta (e senza imbarazzo) il valore straordinario di questo suo romanzo, proprio nel riviverne le emozioni durante la lettura pubblica che ne è stata offerta. Ha ragione Michele Mari, traduttore recente del romanzo: l’Isola del tesoro è un «libro che fra i mille suoi pregi ha quello di rallentare la crescita di chi ha avuto la fortuna di leggerlo nell’adolescenza».

Come scriveva Italo Calvino, in un articolo apparso sull’«Unità» del 1955:

«Senza un messaggio esplicito, senza un bagaglio di idee filosofiche o storiche o sociali, Stevenson pure ci ha indicato un segreto prezioso dello scrittore: che questo credere nelle storie con un principio e una fine, una bellezza, una morale, vuol dire credere nel legame dello scrittore con la gente, nel suo posto in una società, quella degli isolani di Samoa, o quella dei milioni di ragazzi e uomini di Samoa che continuano nel mondo a leggere i suoi libri. Essere il Tusitala l’uomo che ascolta le storie degli altri uomini, e le ripensa, e le rinarra traendo fuori quanto in ognuna di esse c’è di bellezza e d’insegnamento universale».

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