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Presente storico

METODO GALIMBERTI

ENZO R. LAFORGIA - 18/02/2022

Quando si parla di castelli, l’immaginazione corre alla visione romantica di fortezze medievali racchiuse tra mura merlate, arricchite da torri e bertesche. Insomma, un edificio molto simile al castello della Cenerentola disneyana. Ora, se qualcuno pensasse di trovare qualcosa del genere recandosi presso il sito del Castello di Belforte, di cui tanto si parla in questi giorni a Varese, resterebbe indubbiamente deluso. Perché il Castello di Belforte, la cui storia è ormai quasi millenaria, ha subito importanti interventi trasformativi nel corso del tempo e, soprattutto, è stato per troppo tempo trascurato e dimenticato, invecchiando e deteriorandosi nella quasi totale indifferenza della città e dei suoi amministratori.

Tutti sanno (o dovrebbero sapere) che la sua origine risale al XII secolo, quando il complesso fortificato, posto a presidio della strada per Como e del fiume Olona, fu interessato alle bellicose vicende, che opponevano Milano all’imperatore del Sacro romano impero. Doveva essere, all’epoca, davvero un “bel forte” e quasi sicuramente continuò a svolgere la sua funzione di baluardo difensivo per due o tre secoli. Poi, venuta a mancare la necessità per cui era sorto, fu gradualmente trasformato in una sorta di cascina agricola.

I marchesi Biumi, che ne divennero proprietari, lo elevarono a nobile residenza privata (eravamo ormai nel XVII secolo), mutandone profondamente il disegno oltreché la funzione: il luogo e tutta l’area circostante furono utilizzati per scopi agricoli e i locali ulteriormente trasformati per ricavarne abitazioni. Infine, a partire dagli anni Sessanta del Novecento, il vecchio Castello fu progressivamente abbandonato e quasi ci si dimenticò di lui e della sua storia.

Non c’è nulla, in ciò che ne è rimasto, che ricordi gli eleganti profili dei manieri medievali o dei castelli della Valle della Loira o ancora dell’ottocentesco castello di Neuschwanstein. E confesso che ha fatto un certo effetto (ed ha solleticato il nostro orgoglio) vederlo citato, accanto al Palazzo Reale di Napoli, al Museo egizio di Torino, alla Basilica di San Marco a Venezia, al Colosseo, tra i beneficiari dei finanziamenti erogati dal Ministero della Cultura.

I soliti esperti di tutto, che, non richiesti, su tutto intervengono con esibita prosopopea, hanno liquidato la faccenda in nome della concretezza: «Cinque milioni di euro per un cumulo di macerie? Meglio farci passare sopra una ruspa!» Sarebbe come dire che, considerate inagibili e non recuperabili le abitazioni dell’antica Pompei…

L’operazione Belforte va, evidentemente, in tutt’altra direzione. Ed è un altro ottimo risultato del “metodo Galimberti”. Risale, infatti, ad almeno tre o tre anni e mezzo fa, quando il Sindaco Galimberti propose di convocare a Palazzo quelli che potevano essere i soggetti interessati al recupero del Castello di Belforte. In quella prima occasione furono invitati i rappresentanti dell’Università degli Studi dell’Insubria, di associazioni storiche, cittadini che da tempo cercavano di richiamare l’attenzione dell’Amministrazione comunale sul degrado di quel sito, architetti e studiosi. In questa fase, ricordo, fu anche notevole e determinante il contributo dei tecnici del Comune e del consigliere comunale Francesco Spatola.

Tutto quel lavoro è servito per essere pronti ad intercettare il bando giusto al momento giusto. Il risultato – straordinario – è il finanziamento riconosciuto dal Ministero della Cultura. Le finalità dell’intervento sono sostanzialmente due: la messa in sicurezza dell’intero complesso e la realizzazione di un “museo della città”, dedicato ai due momenti storici, di cui quel luogo è stato testimone e cioè l’epoca medievale e il periodo risorgimentale (nei suoi pressi ebbero luogo avvenimenti collegati alla cosiddetta seconda guerra d’Indipendenza del 1859).

Credo sia compito prioritario di ogni Amministrazione pubblica, oltre che un esplicito indirizzo dettato dalla nostra Costituzione, quello di preservare i beni materiali e immateriali, che compongono il nostro patrimonio culturale. Non per una mera finalità conservativa, ma per mantenere ben vivo il filo della storia che unisce le generazioni e restituisce il senso di ciò che siamo stati e ciò che vorremmo essere.

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