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Politica

MEMORIA CORTA

MANIGLIO BOTTI - 12/10/2018

vesuvioLa memoria non sembra proprio essere una virtù di questo nostro bel paese. E non soltanto la memoria, stando a quanto spesso si legge sui social che, da tempo, rappresentano le nuove e più dirette forme di comunicazione, dove abbondano le fake news, cioè le notizie false, destituite – come si dice – da ogni fondamento, e le più antiche leggende metropolitane.

Non si sta parlando di una libresca memoria storica che, nel migliore dei casi, potremmo fare risalire a circa un secolo fa, quindi alla prima guerra mondiale, o anche agli anni del fascismo e della sua caduta e alla Resistenza, ma di una memoria di fatti accaduti non tanti anni fa, recenti, per esempio a quelli bui del terrorismo e di Tangentopoli, a parte naturalmente le solite ricostruzioni giornalistiche e rievocative da scadenza di calendario che vengono e passano come acqua sul marmo.

Pensiamo solo ai governi di Silvio Berlusconi (a proposito: il Cavaliere, qualche settimana fa, ha compiuto 82 anni, auguri), il quale – secondo un immaginario politically correct che ormai gira un po’ dappertutto –, prima di cominciare a cadere – nonostante tutti i suoi sforzi – nel dimenticatoio e quasi nel dispregio avrebbe improntato di sé e della sua Italia “gaudente e volgare” almeno un ventennio dell’ultimo quarto di secolo. Il solito ventennio.

Non è così, e basta poco per verificarlo. Dal 1994, epoca in cui risale la sua famosa “discesa in campo” per fare argine (da destra o centrodestra) a una sempre presente e forte “compagine comunista” a oggi (in realtà fino al 2011, quando si insediò il governo Monti, Silvio Berlusconi è stato a Palazzo Chigi (con qualche interruzione) per soli nove anni. Sarà anche, come diceva lui, che non l’hanno mai lasciato lavorare come avrebbe voluto, sta di fatto, senza entrare nel merito di considerazioni d’altro tipo, che tutte le colpe presunte o reali che hanno ridotto l’Italia al lumicino non sono – non sarebbero – tutte da attribuire a lui.

Memoria corta, dunque. E anche il leghista Matteo Salvini – che all’epoca della discesa in campo del Berlusca frequentava, o forse bighellonava, nelle aule dell’Università – era di tutt’altre vedute rispetto a quelle di oggi e del “cambiamento”, sempre e in ogni caso, che verrebbe proclamato a ogni piè sospinto.

Del Bossi Senatùr, che l’avrebbe potuto annoverare tra i suoi allievi prediletti, aveva assorbito tutto il credo. Non diciamo niente di nuovo per esempio se sottolineiamo che il motto leghista più noto dell’epoca (a parte forzose e irrealizzabili progetti secessionisti e federalisti) era: Terroni a casa! E poi l’altrettanto famosa invettiva: Vesuvio, cancellali con la lava!

Come dire che il principale e attuale coéquipier pentastellato di Palazzo, Luigi Di Maio, nato a Avellino e cresciuto a Pomigliano d’Arco in provincia di Napoli, mai e poi mai si sarebbe potuto sventuratamente trovare al suo fianco per mutare le sorti dell’Italia.

Non stiamo parlando dell’epoca delle palafitte dell’Isolino, ma sempre di una ventina di anni fa o poco più: quando Silvio Berlusconi cominciò trasformare il Paese in una grande Mediaset (già Fininvest, e prima ancora di Forza Italia) lui, Di Maio, frequentava la seconda elementare. Ed è abbastanza difficile, forse, quando ancora giocava con le figurine, che si ricordi delle politiche leghiste di quel tempo. La Lega ebbe suoi uomini ai dicasteri della Giustizia, del Lavoro, delle Riforme costituzionali e anche dell’Interno che è ripiombato oggi sulle spalle di un resuscitato e un po’ incattivito Uomo del Nord).

Qualche responsabilità del Carroccio, nei nove anni suddetti del berlusconismo, ci sarà pure stata.

Niente. Nessuno ricorda o finge di non ricordare. Passi per Di Maio, ma possibile che nessun altro fiuti – che so – una presa in giro di dimensioni colossali? E quale fiducia si può nutrire in questi soloni che ora annunciano magnifiche e progressive sorti per un’Italia che ha già da smaltire il terzo debito pubblico più grande del mondo?

Ci fu, anni fa, un famoso sceneggiato televisivo intitolato i Grandi Camaleonti, che più o meno raccontava la storia di uomini che dopo la Rivoluzione portarono la Francia all’avvento di Napoleone, in buona parte gli stessi di prima. Grandi Camaleonti? Dilettanti allo sbaraglio dinanzi a questi che sentiamo parlare oggi e ogni sera in Tv.

Si può o non si può avere fiducia di una tale genìa. Siamo (per adesso) in un clima di democrazia. Considerato che poi, in fondo, ma proprio in fondo, la risposta è sempre la stessa: Lasciamoli lavorare.

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