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Opinioni

CENT’ANNI DOPO

VINCENZO CIARAFFA - 02/11/2018

redipugliaProprio su questo settimanale nell’anno 2014 dedicammo quattro puntate al centenario d’inizio della Prima Guerra Mondiale… Appena tre anni fa, ma durante questo tempo sembra cambiato il mondo e con esso la prospettiva storica europea.

A maggior ragione, perciò, adesso che siamo al centenario che ricorda la fine di quella guerra, ci è sembrato doveroso ritornare su di un avvenimento che ha modificato il quadro geopolitico dell’Europa e che ha prodotto tossine che il Vecchio Continente, oggi, ancora non è riuscito a smaltire.

Le tossine iniziarono a prodursi già all’indomani dei diversi trattati, stipulati nel periodo 1919-1920, che sono globalmente ricordati come Trattato di Versailles e non anche di Saint Germain, del Trianon o di Neuilly.

Tali trattati, purtroppo, crearono nuove fratture tra gli europei perché i vincitori non inseguirono il realizzo della pace come modello di coesistenza, ma l’obiettivo di far pagare alla Germania i costi della guerra e arraffare più compensi territoriali possibili, dopo la dissoluzione dei quattro imperi usciti sconfitti, come dire quello russo, quello austriaco, quello tedesco e quello turco.

Tra l’altro, nel suo complesso, il Trattato di Versailles fu così vessatorio e ingiusto per gli sconfitti che il generale francese Ferdinand Foch, che pure ne era stato l’ispiratore assieme a Clemenceau, fece una previsione che si sarebbe rivelata drammaticamente azzeccata: «Questo non è un trattato di pace ma un armistizio lungo vent’anni!».

Infatti, esattamente vent’anni dopo quella profezia, cominciò – ancora una volta in Europa – la seconda Guerra Mondiale, mirante a saldare parecchi conti lasciati in sospeso a Versailles.

La Germania rivoleva la Boemia e la Moravia dalla Cecoslovacchia, la Polonia la regione della Zaolzie e l’Ungheria la Rutenia subcarpatica; la Russia, invece, rivoleva indietro dalla Polonia parte delle Bielorussia e dell’Ucraina, la Lituania la città di Vilnius, che la Polonia aveva conquistata e, nel frattempo, eletta a capoluogo del Voivodato di Vilnius.

Semplice districarsi no? Per non parlare, poi, delle tendenze centrifughe delle diverse etnie che erano forzosamente confluite nella neonata Jugoslavia, ovvero la bosniaca, la croata, la macedone, la montenegrina, le serba e la slovena.

Dopo la Seconda Guerra Mondiale e la suddivisione del mondo in blocchi politico militari, l’Est Europeo finì sotto il tacco dell’Unione Sovietica che, per assicurare l’indispensabile monolitismo occorrente per poter fronteggiare l’Alleanza Atlantica, anestetizzò ogni rivendicazione locale dei diversi Paesi che – volenti o nolenti – dovettero entrare a fare parte del Patto di Varsavia. Sicché, per quanto paradossale possa sembrare e fatta la tara sulla persistente minaccia atomica, l’epoca dei blocchi fu la più serena per l’Europa, che ormai dipendeva da due poteri decisionali che si trovavano a Mosca e a Washington e che non si sarebbero fatti trascinare in una guerra nucleare per le contese locali del Vecchio Continente.

La riprova di quanto fossero ancora attive le tossine messe in circolazione a Versailles settant’anni prima, si ebbe nel 1989 quando, imploso l’impero dell’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche, tutti i Paesi che lo componevano fino a quel momento ripresero la loro sovranità, ma alcuni di essi ripresero soltanto la libertà di regolare i conti lasciati aperti dalla Grande Guerra.

Pertanto, per regolare questi, i diversi popoli della Repubblica Jugoslava lavorarono nel sangue, ricorrendo anche a tentativi di pulizia etnica, per costituirsi in Stati autonomi, sicché a est dell’Italia nacquero sei nuovi Paesi: Bosnia, Croazia, Macedonia, Montenegro, Serbia e Slovenia. Senza contare che nella regione del Kosovo, che rivendica da sempre l’indipendenza dalla Serbia, il fuoco ancora oggi continua a covare sotto la cenere.

Ma le spinte centrifughe, se non proprio il fuoco, covano sotto la cenere non soltanto a Est ma anche più vicino a noi, come dire il fuoco secessionista acceso dai catalani in Spagna e che rischia di “infettare” anche i baschi, i fiamminghi, i valloni, gli altoatesini, i sardi, gli scozzesi, i gallesi, gli irlandesi del nord, i corsi, i bretoni e gli occitani.

Com’è possibile che in tempi in cui si cerca di fare dell’unione Europea un super-stato sono proprio i singoli stati a entrare in crisi o, quanto meno, a subire il fascino di spinte secessioniste?

Incominciamo col dire che i realizzatori dell’Europa Unita non credevano si potesse unificare per davvero, sia politicamente sia militarmente, il Vecchio Continente. Volevano soltanto impedire nuovi conflitti militari, visto che si era acceso in Europa il focolaio di ben due guerre mondiali.

Prendiamo per esempio Winston Churchill e Charles De Gaulle: il primo, considerato uno dei padri fondatori dell’Europa Unita, riteneva che la Gran Bretagna dovesse stare sì con l’Europa Comunitaria ma fuori dalle sue strutture operative, paventandone la burocratizzazione, come poi è avvenuto, tant’è che ne è appena uscita con la Brexit.

 Il secondo, De Gaulle, addirittura pensava che l’Europa Unita sarebbe diventata un equivoco sistema di potere e che suoi organismi, che chiamava “eurocrati”, avrebbero finito col delegittimare gli Stati nazionali ed i governi eletti dal popolo… Un antiveggente!

Quanto i due statisti avessero visto giusto è sotto gli occhi di tutti ed anche la crisi catalana e le spinte cosiddette populiste, in una certa misura, sono figlie dell’eurocrazia di De Gaulle.

Il perché riteniamo sia semplice: l’Unione Europea, sovrapponendosi e delegittimando per forza di cose i governi eletti dal popolo dei singoli Paesi che ne fanno parte, ha minato la loro funzione centralizzatrice dissolvendo, così, il collante di alcune già labili unità nazionali, innescando antiche rivendicazioni territoriali e risvegliando sopiti nazionalismi.

Ma il peccato mortale dell’Unione Europea è stato quello di avere smesso di far politica e di essersi costituita in direttorio a trazione franco-tedesca per poter dirigere, col pugno di ferro degli eurocrati, l’economia dei singoli Stati, in nome di una generica e mai diffusamente goduta “stabilità economica e monetaria”. Com’è avvenuto per la recente bocciatura, ampiamente preannunciata da Bruxelles, della manovra economica – la prima espansiva dopo un decennio – del governo italiano. Ciò in nome della stabilità economica e monetaria dell’eurozona, ostinandosi a non voler capire che la stabilità economica e quella monetaria non producono gli stessi effetti sul benessere dei singoli Paesi dell’Unione.

Insomma, a un secolo dalla fine della Prima Guerra Mondiale, l’Europa è ancora alle prese con alcuni problemi lasciati aperti dai trattati che ne sono seguiti e, in sessantuno anni di vita, l’Unione Europea non ha fatto altro che amplificarli, sicché in questo momento storico, per quanto rivoluzionaria possa sembrare la tesi, essa è il vero pericolo per la pace sociale del Vecchio Continente.

E si può capire che questa nostra non è una forzatura polemica se ci soffermiamo su di un avvenimento che l’Unione Europea è riuscita a peggiorare salvo poi lamentarsene e tirare in ballo ancora il populismo.

Nel 1991, Polonia, Repubblica Ceca, Slovacchia e Ungheria, quattro dei Paesi appena usciti dalla “tutela” sovietica, si costituirono nel “Gruppo di Visegrad”, un’alleanza che nei loro intenti iniziali doveva essere soltanto politica e culturale. Nel 2004 tali Paesi entrarono a far parte dell’Unione Europea. Ebbene, nel giro di appena una decina d’anni, quella che fu un’entusiastica adesione all’UE si è trasformata in aperta contestazione della politica di Bruxelles, tant’è che, eccetto la Slovacchia, il gruppo non ha ancora adottato neppure l’euro, perché lo teme, sicché il premier ungherese Orbàn e il vice premier italiano Salvini ormai ne contestano apertamente la politica. Senza parlare delle mai sopite mire espansionistiche della Russia di Putin sui Paesi dell’ex impero sovietico in Europa.

Anche se non ce ne rendiamo conto, stiamo vivendo sull’orlo d’infuocati abissi politici, nei quali non siamo ancora precipitati soltanto perché non si è venuto a creare quell’effetto a catena perfetto che, prima o poi, agglomererà in modo catastrofico tutti i problemi vecchi e nuovi del nostro continente.

A tal proposito non sottovalutiamo neppure ciò che potrebbe accadere l’anno prossimo quando le elezioni europee, comunque andranno, come minimo appanneranno il sogno europeo, per la forte presenza di partiti e movimenti politici che non credono più in “questa” Europa Unita. L’ennesima riprova di ciò è leggibile anche nel risultato delle recenti elezioni tedesche di Baviera e in Assia, come dire che perfino tra le Sturmtruppen dell’Unione Europea, s’incomincia a intravedere qualche defezione.

Piaccia o no, dei fatti e degli avvenimenti sopra accennati è intriso il centenario che andremo a conchiudere dopodomani.

Nonostante questo deprimente bilancio (e forse proprio per questo), sentiamo imperante il dovere di invitare il lettore a condividere con noi, oltre agli auspici di pace tra i popoli, la riconoscenza e l’orgoglio di essere progenie di coloro che si batterono per il nostro Paese oltre ogni limite umano, abbarbicati con le unghie alle balze alpine, o ergendosi come spuntoni di roccia dalle fangose ripe del Piave dopo Caporetto.

Davanti a loro – e soltanto davanti a loro – ci inchiniamo commossi e in silenziosa preghiera.

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