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Attualità

GONG DEI SETTANTA

MANIGLIO BOTTI - 27/09/2019

auguriProprio oggi, sabato 28 settembre 2019, nel momento in cui RMF viene immesso in linea, compio settant’anni.

Sono tanti, sono ancora pochi… Parliamone. Quand’ero ragazzino, diciamo bambino, quindi sul finire degli anni Cinquanta e all’inizio dei Sessanta, un uomo e anche una donna di cinquant’anni erano considerati vecchi, segnati, quasi con uno sguardo e con la mente rivolti altrove

Ricordo ancora quando fu mio padre a compiere cinquant’anni. Era il dicembre del 1968 ed era casualmente una bella giornata di sole. Lui, che aveva combattuto in tre campagne di guerra, lo considerava già un traguardo importante, rispetto a molti amici della sua gioventù che aveva visto andarsene.

Mio babbo mi avrebbe lasciato da lì a diciotto anni. Ho sempre avuto l’impressione che non avesse paura del dopo. Aveva appena fatto in tempo a conoscere i miei figli e, in un certo senso, era un uomo felice, appagato dalla vita.

Ne parlo perché per me figlio unico il rapporto con mio padre – lui era figlio di ragazza madre e non aveva mai conosciuto suo papà – fu sempre molto intenso, ravvicinatissimo, di più di quello che sarebbe dovuto essere il rapporto con mia mamma.

Non so se questa cosa è capitata ad altri: vissi con una certa angoscia, un paio di anni fa, il compimento dei miei sessantotto anni: mio babbo, per due mesi, l’aveva mancato. Mi sembrava strano – un privilegio o qualcos’altro di peggiore – diventare più vecchio di quanto era stato lui. Il destino, che è infine comune a tutti gli uomini, aveva deciso così: non so se in modo beffardo o magnanimo.

Come credo capiti a tutti, i ricordi dell’infanzia cominciano a partire dai tre anni, e nemmeno in modo compiuto, ma in sembianza di flash. Brevi sequenze quasi cinematografiche. Non ci ho mai pensato su più di tanto, sono temi che forse attengono alla psicologia, chi lo sa.

Dunque per quanto mi riguarda nulla so – se non quello che mi ha raccontato mia mamma – degli attimi in cui venni alla luce e quando i miei occhi, per la prima volta, si posarono – vedendo chissà che cosa – sulla linea dell’orizzonte.

Come usava una volta, settant’anni fa, appunto, la maggioranza dei bambini nasceva in casa. E così capitò anche a me: sono nato in un casolare della campagna umbra, a ridosso della piana eugubina dove scorre il Chiascio, affluente del Tevere, che era poi la casa dei miei nonni materni e dei miei prozii – tre erano morti in guerra –, mezzadri delle suore clarisse di Gualdo.

Sto sempre a quanto mi raccontava mia mamma: erano le cinque e mezzo del pomeriggio. Lei era in camera assistita da sua madre, dalla sua nonna e anche da una levatrice che operava nella zona. Il mio babbo era nella stalla e stava ferrando l’unico cavallo della famiglia insieme con mio nonno. Quando qualcuno, forse uno dei fratelli più piccoli di mia mamma, scese a dire loro che ero un maschio, (questa cosa me la raccontava mio padre): lasciarono perdere il cavallo e spillarono due bicchieri di vino dalla botte.

Mi va poi di citare qualche ricordo-flash della mia vita intorno ai tre anni. Anche qui, forse, bisognerebbe entrare nella psicologia, perché si tratta di ricordi legati a eventi (quasi) tragici. Di quella volta che caddi in un pozzo nero e mi afferrò per i capelli, tirandomi fuori e salvandomi la vita, un ragazzo più grande. E poi mia mamma che mi lavava in un mastello piangendo e ridendo. Di quell’altra in cui mangiai tre o quattro foglie di una vite e mi portarono al pronto soccorso dove mi fecero una lavanda gastrica.

E del giorno in cui mi operarono insieme delle tonsille e delle adenoidi, d’emblée, senza anestesia: un intervento, un’usanza “medica” che è stata comune a molti “ragazzi” della mia generazione. Qui il ricordo è più nitido: l’infermiere seduto che mi teneva stretto tra le braccia, il medico – un certo dottor Sioli all’epoca importante figura del reparto di otorino dell’Ospedale di Circolo – davanti a me con sulla testa una lampadina, e una specie di “tenaglia” che mi affondava nella gola. Quasi una tortura cui ci si doveva obbligatoriamente sottomettere perché la vita, almeno dal punto di vista dei raffreddori e delle malattie della gola, a seguire, sarebbe stata più benigna e fortunata.

Una teoria. E nemmeno vera. Come tante altre.

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