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Società

IL FILO

SERGIO REDAELLI - 18/10/2019

?????????L’Europa non è solo Bruxelles, sede di alcune delle sue principali istituzioni ed essere europeisti non è solo pensare che gli Stati nazionali siano un ambito troppo angusto per contare economicamente nel mondo. C’è un’anima comune che lega i popoli del vecchio continente e il rogo di Notre-Dame a Parigi nell’aprile scorso la illuminò per un attimo commuovendo tutti. Di questo parlava Giovanni Paolo II quando nel 2004 invitava l’Europa a riscoprire “le radici cristiane per essere all’altezza delle grandi sfide del terzo millennio” e ad affrontare “con giustizia, equità e solidarietà le crescenti migrazioni rendendole una risorsa per il futuro”.

Alla ricerca del filo cristiano che attraversa e unisce la parte nord-occidentale del vecchio mondo, il giornalista Paolo Rumiz compie un affascinante viaggio tra i monasteri benedettini (Il Filo Infinito, in edicola con Repubblica) che partendo da Norcia dopo il terremoto del 2016-2017, segue le tracce del culto di S. Benedetto nelle abbazie, dal Danubio alle sponde dell’Atlantico, riscoprendo i valori antichi che uniscono i popoli europei. Un viaggio che è prima di tutto una navigazione interiore, ma anche la disincantata analisi dell’Europa che “anziché compattarsi litiga, alza reticolati, abbatte regole di garanzia, mette in discussione le conquiste democratiche”.

Aprile di due anni fa. È notte e intorno e dentro a Norcia, all’inizio del viaggio, è solo desolazione. “Amatrice, Accumoli, Visso, Arquata del Tronto come la Bosnia in guerra – racconta l’autore – paesi fantasma, strade deserte, sfollati, mimetiche, odore di kerosene e miseria, contiguità di case intatte e case polverizzate. Si percepiva il pericolo onnipresente”. C’era un attonito contrasto con l’aria primaverile satura di trilli, fischi e cinguettii. Le cifre parleranno a posteriori di oltre 40 mila sfollati e 300 morti. Resta miracolosamente in piedi la statua di S. Benedetto, illuminata a giorno nel centro della piazza di Norcia.

“Mostrava un uomo dalla barba venerabile e dalla larga tunica – scrive Rumiz – sollevava il braccio destro come per indicare qualcosa fra cielo e terra. Era intatta in mezzo alla distruzione e portava la scritta San Benedetto, patrono d’Europa. Un tuffo al cuore. Cosa diceva quel santo benedicente in mezzo ai detriti di un mondo? Diceva che l’Europa andava alla malora? La Gran Bretagna aveva appena votato per uscire dall’Unione e io ero forse davanti alle macerie di una grandiosa idea politica? Il messaggio sembrava trasparente. Il ritorno degli egoismi nazionali diceva di una balcanizzazione in atto su scala continentale”.

Ma l’incolumità della statua in mezzo alla distruzione poteva mandare anche un messaggio diametralmente opposto: “Ricordava forse che alla caduta dell’Impero romano era stato il monachesimo benedettino a salvare l’Europa. Che uomini erano stati quelli! Erano riusciti a salvare l’Europa senz’armi, con la sola forza della fede, con l’efficacia della formula ora et labora. Lo avevano fatto quando le invasioni erano una cosa seria, non una migrazione di diseredati. Ondate violente, spietate, pagane. Unni, Vandali, Visigoti, Longobardi, Slavi e infine i ferocissimi Ungari. Quei giganti in tonaca nera li avevano cristianizzati e resi mansueti con l’esempio”.

Benedetto era nato lì, sulla lunga dorsale inquieta al centro non solo dell’Italia ma dell’intero Mediterraneo: “Il messaggio del Santo – riflette Rumiz – poteva anche essere che l’Europa era ripiombata nel Medioevo e che per tornare alle sue radici spirituali avrebbe dovuto passare nuovamente per una stagione di distruzioni. O forse il senso era che Benedetto era stato capace di costruire l’Europa nonostante le macerie, perché era più forte di loro. Da dove se non dall’Appennino, un mondo duro abituato da millenni a risorgere dopo ogni terremoto, poteva essere venuta, millecinquecento anni fa, quella formidabile spinta alla ricostruzione dell’Europa?

E quanto era conscia l’Italia della sua centralità nel destino del continente? Quelle nere tonache dicevano che l’Europa è prima di tutto una spazio millenario di migrazioni. Lì, in mezzo alle macerie di Norcia – aggiunge lo scrittore prima di continuare il suo viaggio nelle abbazie benedettine – vivevo una vertiginosa percezione della centralità dell’Italia e della sua colonna vertebrale. Per tre volte l’Europa era rinata da quelle montagne: con Roma, col monachesimo e col Rinascimento. Ma l’avevamo dimenticato”.

Prima di essere un continente geografico con una propria organizzazione politica ed economica sovranazionale, l’Europa ha insomma una storia millenaria e un patrimonio di elementi comuni culturali da difendere. Radici profonde e allargate rispetto agli stretti confini nazionali. “Coraggio e cuore dunque – conclude Rumiz – come i monaci che rifondarono l’Europa sotto l’urto delle invasioni barbariche, come i padri fondatori dell’Unione che dopo due guerre mondiali ridiedero dignità e ricchezza a un continente in ginocchio, costruiamo una rete con gli altri Paesi per far sentire meno solo chi non si rassegna a un ritorno dei muri e al linguaggio della violenza”.

 

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