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Spettacoli

WESTERN FATTI IN CASA

MANIGLIO BOTTI - 31/03/2012

Quanti passaporti falsi per un successo. Condizione necessaria, all’inizio degli anni Sessanta, di un western, ancorché “fatto” in Italia, era che non comparisse il nome di un italiano tra gli attori, e tantomeno il regista. Almeno così si pensava. Accadde nel 1964 per il film “Per un pugno di dollari”, diretto da Bob Robertson, al secolo Sergio Leone, con John Wells (Gian Maria Volonté), Carol Brown (Bruno Carotenuto), Richard Stuyvesant (Mario Brega)… Anche alcuni tecnici e operatori – come in un gioco tipico in una classe di ginnasiali – cambiarono il loro nome: per esempio, il direttore della fotografia, Massimo Dallamano, si autobattezzò Jack Dalmas, il montatore Roberto Cinquini Bob Quintle… E anche l’autore dell’ormai mitica colonna sonora, il già grande Ennio Moricone, diventò Don Savio. Unica eccezione quella di Clint Eastwood, genuinamente nato a San Francisco, che all’epoca aveva trentaquattro anni e godeva già di una certa notorietà.

Ma anche il romano Sergio Leone-Bob Robertson, pressoché coetaneo di Eastwood, non era l’ultimo arrivato. Fin da ragazzo s’era nutrito di pane e cinema. Lo stesso nome anglofono era una specie di marchio di fabbrica: infatti suo padre, Roberto Roberti (un altro nome d’arte, ma italianissimo) era un operoso e affermato regista degli anni Venti e Trenta, con in più un’etichetta di intellettuale un po’ anarcoide e antifascista; la mamma, Bice Valerian, una brava attrice del muto e protagonista, a sua volta, di un western italiano del 1909. Al suo attivo, Sergio Leone aveva inoltre una buona esperienza di collaboratore di produzione o di regia in alcuni kolossal girati nella capitale italiana a Cinecittà (Quo vadis? di Mervyn LeRoy, del 1951, Ben Hur di William Wyler, del 1959); come regista aveva firmato “Il colosso di Rodi” (1961) e, qualche anno prima, era subentrato a Mario Bonnard nella direzione di “Gli ultimi giorni di Pompei”. Non solo, le cronache ricordano anche un Sergio Leone attore-comparsa in un film che è una pietra miliare del neorealismo: è Sergio uno dei pretini che, sorpresi da un acquazzone, si rifugiano sotto una tettoia insieme con l’attacchino comunale cui hanno appena rubato la bicicletta, nell’omonimo, famoso film di Vittorio De Sica. È il 1948 e Sergio Leone ha appena diciannove anni.

La cosmesi anagrafica e americanizzante degli autori di “Per un pugno di dollari” ottenne in ogni caso il risultato voluto, perché il film western italo-spagnolo si rivelò uno dei più grossi successi degli anni Sessanta, incassando al botteghino più di tre miliardi, che per l’epoca era una cifra astronomica. E perciò non proprio strappandosi le vesti la produzione risarcì (ampiamente) il regista giapponese Kurosawa e il suo sceneggiatore Kikushima, i quali avevano denunciato il plagio del loro film “La sfida del samurai” (Yojimbo), scritto e diretto tre soli anni prima.

Il film di Robertson-Leone racconta la storia di una contesa, per ragioni di contrabbando, in un villaggio tra il Messico e gli Stati Uniti, di due famiglie, i Rojo (i Rosso o i Rossi, in pratica) e i Baxter. Tra i due litiganti riuscirà a intromettersi con buona pace – anche eterna – di tutti un pistolero senza nome (ma nelle pieghe del film qualcuno lo apostrofa come Joe), Clint Eastwood.

“Per un pugno di dollari” – secondo i canoni ormai classici del western all’italiana – è considerato il primo film della cosiddetta “trilogia del dollaro”. Un anno dopo lo straordinario successo di “Per un pugno di dollari”, nel 1965, Sergio Leone e i suoi collaboratori replicarono con “Per qualche dollaro in più”, sempre con Clint Eastwood, con Gian Maria Volonté nella parte di Indio e con Lee Van Cleef nella parte del Colonnello. Una particolarità: Clint Eastwood chiamava Vecchio Lee Van Cleef, che nella realtà aveva solo cinque anni di più, e a sua volta veniva chiamato Ragazzo. In “Per qualche dollaro in più”, tuttavia, Sergio Leone e i suoi, compreso il maestro Morricone, non anglicizzarono il loro nome ma si presentarono al pubblico tali e quali.

Ultimo film della trilogia leoniana “Il buono, il brutto e il cattivo”, del 1966: il buono era Clint Eastwood, Joe, appunto; Ely Wallach (1915) nella parte di Tuco era il brutto e Lee Van Cleef (1925-1989), detto Sentenza, era il cattivo.

Non mancarono, come sempre succede dinanzi ai sequel di successo, le parodie. Non proprio eccelse in verità. Due specialisti come Franco e Ciccio ne portarono sugli schermi un paio: “Per un pugno nell’occhio”, proprio nel 1964, e “Il bello, il brutto e il cretino”, nel 1967. Il regista Mario Mattòli, invece, nel 1966, diresse “Per qualche dollaro in meno”: tra gli interpreti Lando Buzzanca, Raimondo Vianello, Elio Pandolfi…

Degli interpreti dei film di Leone, Clint Eastwood resta in ogni caso e al di là di ogni scherzo l’eroe assoluto. Da un punto di vista generale, il primo ad amarlo (e a esorcizzarlo) era proprio Sergio Leone che di lui diceva: “Clint ha solo due espressioni, con il sigaro e senza sigaro”. Ed è difficile non ricordare il “grande” Clint (magistralmente doppiato da Enrico Maria Salerno) con il suo mozzicone di sigaro tra le labbra, il cappelluccio, il poncho che sarebbe piaciuto a Garibaldi e a Missoni… Difficile anche pensare, allora, che quell’attore e personaggio così rude e pratico – l’ispettore Callaghan degli anni Settanta, il famoso Dirty Hharry – sarebbe poi diventato il raffinato regista e interprete degli anni Novanta e dell’inizio del terzo Millennio. Ma a dire il vero un filo rosso che lega il pistolero Joe al Walt Kowalski di “Gran Torino” – per dire di uno degli ultimi film di Clint – c’è. Il filo romantico della sobrietà dell’uomo giusto e generoso. Con o senza la pistola.

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