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Presente storico

MURI E MACERIE

ENZO R. LAFORGIA - 29/11/2019

e-tu-doveRecentemente è stato pubblicato in Germania dalla casa editrice Herder un volume firmato da Freya Klier, già esponente del dissenso nella Repubblica democratica tedesca, intitolato “E tu dov’eri?”. Trent’anni dalla caduta del Muro. L’autrice ha raccolto la testimonianza di 23 donne e uomini della ex Germania dell’Ovest e della ex Germania dell’Est, i quali le hanno raccontato dov’erano, cosa stessero facendo, quali emozioni abbiano provato il 9 novembre del 1989.

Ho provato anch’io a ricordare dove fossi e cosa stessi facendo in quel giorno, che subito è stato elevato a data simbolo, evento cerniera della storia contemporanea, termine – o inizio della fine – della storia del Novecento.

Non me lo ricordo…

So bene, evidentemente, dove mi trovavo in quel momento, la scuola in cui allora insegnavo… Ho bene in mente le persone che frequentavo allora e le esperienze che stavo facendo. Ricordo, ad esempio, che l’estate precedente l’avevo trascorsa a Parigi, dove viveva allora la mia compagna, perché la capitale francese era attraversata da uno straordinario pullulare di iniziative per il centenario della Rivoluzione francese. (Erano i primi sintomi di quella «commemorazionite» di cui hanno parlato i francesi a proposito del moltiplicarsi di giornate dedicate al ricordo e alla memoria.)

E così mi sono interrogato, in questi giorni, sul perché io non riesca a collegare gli accadimenti quotidiani della mia vita di allora ad un evento così importante nella storia dell’umanità. Certo, a quel tempo non riuscivamo ad intercettare avvenimenti lontani nello spazio nel momento stesso in cui si verificavano se non attraverso la televisione (che a quel tempo io non possedevo) e la radio (costante sottofondo del mio tempo domestico). Non c’erano ancora Internet, i Social Network e gli smartphone.

Ricordo bene, però, le discussioni che quotidianamente intraprendevo con colleghi e amici su quanto stesse accadendo intorno a noi, su come il mondo in cui eravamo nati e vissuti stesse rapidamente cambiando. Troppo rapidamente…

Stranamente, sono molte le immagini che ricordo di quel 1989. Quasi tutte scoperte sulle pagine dei quotidiani che compulsavo durante i miei lunghi viaggi in autobus per andare e tornare dal lavoro e tutte in bianco e nero. Le immagini, invece, fissatesi nella mia memoria del momento in cui, la sera del 9 novembre, fu di fatto aperta la frontiera con la Germania orientale, sono a colori e credo siano il risultato dell’infinita riproduzione di quelle scene negli ultimi decenni.

Di quel 1989 ricordo, ad esempio, la foto di un giovane Lech Walesa che tiene un comizio nel febbraio di quell’anno, quando il regime polacco (ricordate anche voi il volto severo di Jaruzelski, con i suoi occhiali scuri?) dovette riconoscere ufficialmente il suo sindacato come interlocutore politico, aprendo una lunga trattativa, che portò la Polonia alle elezioni nel giugno successivo. Furono le elezioni in cui Solidarność ottenne 99 seggi su 100 al Senato ed una schiacciante maggioranza all’Assemblea parlamentare. Il 12 settembre successivo, Tadeusz Mazowiecki fu nominato Primo ministro. Fu il Primo ministro non comunista dalla fine della guerra.

Ricordo ancora, le immagini dei corpi di Nicolae Ceauşescu e di sua moglie, che, dopo un lungo inseguimento, erano stati catturati, sottoposti al giudizio di un improvvisato tribunale militare e fucilati il 21 dicembre 1989. Ceauşescu aveva tiranneggiato in Romania, il paese più «orientale» tra quelli che orbitavano nel sistema sovietico, ininterrottamente dal 1965. Personaggio terribile, famoso per una non comune considerazione di sé: si era attribuito, tra i tanti, i titoli di «Genio dei Carpazi», «Titano», «Conducator», «Saggio Timoniere».

Ricordo la foto di Achille Occhetto in prima pagina sul «Corriere della Sera» del 14 novembre, accanto al titolo che annunciava «Basta col nome comunista». Due giorni prima, Occhetto si era presentato inaspettatamente alla manifestazione commemorativa per il 45° anniversario della battaglia partigiana della «Bolognina» e in un breve intervento aveva lasciato intendere che il Partito comunista italiano avrebbe potuto cambiare nome. Ai giornalisti presenti, che gli avevano chiesto se le sue parole lasciassero presagire un cambiamento del nome del partito, Occhetto aveva risposto in modo sibillino: «Lasciano presagire tutto».

Ricordo molto bene (ero a cena da un amico che aveva, lui sì, il televisore) la scena del cosiddetto «Rivoltoso sconosciuto» o «Tank Man», quell’omino con la camicia bianca, che, il 4 giugno, fermò una colonna di blindati diretti in piazza Tienanmen, a Pechino. Le riforme di Deng Xiaoping, fautore di una economia socialista di mercato, avevano provocato l’aumento dell’inflazione, cui il governo aveva risposto con una politica di austerità. Anche sull’onda di quanto stava avvenendo nel mondo, si scatenò un vasto movimento di protesta. Ma, a differenza di quanto avveniva in altre parti del mondo, in Cina la protesta fu duramente repressa. I carri armanti fermati per poco tempo da quell’eroe sconosciuto, giunsero comunque nella immensa piazza della capitale cinese schiacciando gli studenti che lì manifestavano da giorni.

Insomma…, tante cose stavano accadendo in quel 1989. Al punto che quell’anno è stato elevato da alcuni storici a data simbolica che chiuderebbe il Novecento.

Ma, andando ancora una volta con la memoria a quell’anno, ci fu un altro avvenimento che fece discutere molti e fece discutere a lungo i miei amici e me. Nell’estate del 1989, anche i giornali italiani diedero notizia di un articolo pubblicato negli Stati Uniti da un funzionario del Dipartimento di Stato americano che si intitolava La fine della Storia?. Da questo articolo, l’autore, Francis Fukujama, avrebbe tratto un libro tradotto in venti lingue e pubblicato nel 1992 con il titolo La fine della storia e l’ultimo uomo. La tesi di fondo sosteneva che, alla luce dei cambiamenti in atto, lo svolgimento dialettico della Storia, così come lo aveva descritto Hegel e lo aveva spiegato a Parigi negli anni Trenta Alexandre Kojève, stava per concludersi. La società liberale, giunta al suo massimo sviluppo, sarebbe diventata il modello unico e dominante, non essendoci più alternative in grado di opporvisi. Insomma, se Hegel nel 1806 a Jena poteva dire di aver visto in Napoleone «lo spirito del Mondo a cavallo», Fukujama vedeva lo «spirito del Mondo» nella forma della democrazia liberale e nell’economia di mercato.

Nell’entusiasmo generale che accompagnò l’apertura e poi il crollo del Muro di Berlino, ci eravamo dimenticati dell’ultimo muro ereditato dalla Guerra fredda e che avrebbe resistito sino al 2004. In realtà, a fine novembre di quello stesso 1989, un manipolo di eroi si era diretto, armato di picconi e intonando canti patriottici, verso quanto ancora restava in piedi delle decisioni assunte a Jalta nel 1945. Così descrisse l’eroica impresa il giornalista Gian Antonio Stella sulle pagine del quotidiano milanese:

«Incurante della pioggerella che gli sciupava il morbido loden blu, il segretario del Msi, Gianfranco Fini, ha tentato ieri di invadere (simbolicamente) la Jugoslavia. Niente da fare. Per tre volte, approfittando della confusione creata dai camerati e sfuggendo agilmente alla guardia dei carabinieri, si è lanciato impetuosamente a scavalcare la cancellata, alta più di un metro e mezzo, ma senza risultato. Bloccato inesorabilmente prima ancora che riuscisse a violare, con la gamba tesa oltre lo steccato, lo spazio aereo sloveno, ha dovuto desistere».

Avremmo dovuto attendere il terzo millennio per vedere rimosso il muretto sovrastato da una recinzione metallica, che, dal 1947, aveva diviso la città di Gorizia in una zona italiana e in una jugoslava. Ma l’entusiasmo per la caduta dei muri lo avevamo esaurito tutto tra il 1989 ed il 1991. Di Gorizia non si ricordava quasi più nessuno. E del resto, con l’inizio del Terzo Millennio e l’età della globalizzazione, abbiamo sopperito allo smarrimento identitario con l’edificazione di nuovi muri, reali o virtuali.

C’è stato un tempo in cui abbiamo sognato un mondo senza confini e cantavamo che la «nostra Patria è il Mondo intero». Poi, il lento sgretolarsi dei tradizionali ancoraggi sociali (lo Stato-nazione, la Chiesa, il Partito, il Sindacato), che definivano in qualche modo la nostra appartenenza e la nostra identità, siamo stati tutti presi dalla «sindrome dello scompartimento ferroviario». Ha spiegato bene in cosa consista questa particolare sindrome lo storico Hans Magnus Enzensberger:

«Due personaggi in uno scompartimento ferroviario. Non sappiamo nulla della loro storia, non sappiamo da dove vengono, né dove vanno. Si sono sistemati comodamente, hanno preso possesso di tavolino, attaccapanni, portabagagli. Sui sedili liberi sono sparsi giornali, cappotti, borse. La porta si apre, e nello scompartimento entrano nuovi viaggiatori. Il loro arrivo non è accolto con favore. Si avverte una chiara riluttanza a stringersi, a sgombrare i posti liberi, a dividere lo spazio disponibile del portabagagli. Anche se non si conoscono affatto, fra i passeggeri originari nasce in questo frangente un singolare senso di solidarietà. Essi affrontano i nuovi arrivati come un gruppo compatto. È loro il territorio che è a disposizione. Considerano un intruso ogni nuovo arrivato. La loro autoconsapevolezza è quella dell’autoctono che rivendica per sé tutto lo spazio. Questa visione delle cose non ha una motivazione razionale ma sembra essere profondamente radicata».

Oggi, abbiamo nuovamente riscoperto la funzione rassicurante (o almeno psicologicamente rassicurante) dei confini, delle frontiere e, perché no, anche dei muri. Li costruiamo con quel che abbiamo sotto mano. Con le macerie rimaste a terra dal crollo dei muri novecenteschi. Materiale di scarto, roba vecchia. Perché di nuovo, non c’è ancora nulla.

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