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Presente storico

CHE SIANO DAVVERO AUGURI

ENZO R. LAFORGIA - 20/12/2019

auguriIl cosiddetto «linguaggio dell’odio» non è una novità dei nostri tempi. Tuttavia oggi, esprimere l’odio verso il prossimo è diventato molto più facile che in passato. Il linguaggio dell’odio si nutre di parole odiose. Le parole odiose sono quelle che provocano dolore. Normalmente sono odiose quelle parole che un gruppo maggioritario e di potere utilizza nei confronti delle minoranze, soprattutto se tradizionalmente discriminate. È il caso di parole odiose come «frocio», «negro», «puttana», «troia», «giudeo», «mongoloide», «ritardato».

Nel corso della Grande guerra, tutti gli Stati alimentarono la paura nei confronti del nemico e del nemico interno, ricorrendo a rappresentazioni che tendevano a disumanizzare e animalizzare l’altro. Si pensi, ad esempio, a come fu rappresentato il nemico austro-tedesco da Alberto Martini nella serie di litografie intitolate La danza macabra europea (1914-1916) o da Ardengo Soffici in un articolo pubblicato su «Lacerba» il 15 agosto del 1914 e intitolato Intorno alla gran bestia (la «gran bestia» cui si riferiva lo scrittore toscano era, per intenderci, il popolo tedesco).

I regimi totalitari seppero poi utilizzare ampiamente i mezzi di comunicazione di massa per rafforzare il consenso, attraverso una martellante propaganda volta ad esibire nelle forme più degradate il nemico di turno. Gli esempi, in questo caso, sarebbero innumerevoli.

Ma attraverso un linguaggio dell’odio è stata alimentata anche la lunghissima Guerra fredda. Si vada con la memoria, per restare entro il recinto di casa nostra, al modo in cui, durante la campagna elettorale per le elezioni politiche del 18 aprile 1948, i socialcomunisti rappresentavano De Gasperi o i cattolici rappresentavano le “bestie” rosse.

Insomma, per tutto il Novecento, le ideologie nazionaliste e imperialiste e le più moderne forme di totalitarismo hanno fatto ricorso ad una rappresentazione del nemico, interno o esterno ad un territorio, per giustificare la loro azione politica (come nel caso di una guerra o in occasione dell’adozione di misure restrittive o del ricorso alla violenza nei confronti di un gruppo di individui).

Oggi, invece, il linguaggio dell’odio sembra solo l’espressione di rancore e paura. Senza alcuna finalità o scopo. E la facilità con cui la nostra paura e il nostro rancore trovano una valvola di sfogo in un linguaggio che non conosce più freni morali è alimentata dall’illusione che le bacheche dei social network siano come le pareti dei bagni pubblici di una volta, dove le sconcezze, anonime, sembravano perfettamente coerenti con il contesto. Invece, le parole affidate ad un post o ad un tweet non restano segregate, ma, al contrario, vengono immediatamente moltiplicate, amplificandone la portata violenta e talvolta traducendosi in azioni.

Il 21 marzo 2016, la Commissione europea contro il razzismo e l’intolleranza del Consiglio d’Europa (Ecri), nella Raccomandazione n. 15, ha indicato che per «discorso dell’odio» o «hate speech» debbano intendersi tutte quelle azioni volte a «fomentare, promuovere o incoraggiare, sotto qualsiasi forma, la denigrazione, l’odio o la diffamazione nei confronti di una persona o di un gruppo, nonché il fatto di sottoporre a soprusi, insulti, stereotipi negativi, stigmatizzazione o minacce una persona o un gruppo e la giustificazione di tutte queste forme o espressioni di odio testé citate, sulla base della “razza”, del colore della pelle, dell’ascendenza, dell’origine nazionale o etnica, dell’età, dell’handicap, della lingua, della religione o delle convinzioni, del sesso, del genere, dell’identità di genere, dell’orientamento sessuale e di altre caratteristiche o stato personale […]».

Il 10 maggio successivo, la Camera dei Deputati del Parlamento italiano ha istituito la Commissione sull’intolleranza, la xenofobia, il razzismo e i fenomeni di odio. Al termine dei lavori, il 6 luglio del 2017, la Commissione ha approvato la relazione definitiva (oggi consultabile on-line). La relazione è introdotta da un testo del grande storico della lingua italiana: Tullio De Mauro. Questi ricordava in quella sede come Gianni Rodari, con una sua filastrocca diventata famosa nella versione musicata e cantata da Sergio Endrigo, avesse fornito una esaustiva carrellata degli usi delle parole: «Abbiamo parole per vendere, / parole per comprare, / parole per fare parole. / Andiamo a cercare insieme / le parole per pensare. / Abbiamo parole per fingere, / parole per ferire, / parole per fare il solletico. / Andiamo a cercare insieme / le parole per amare. / Abbiamo parole per piangere, / parole per tacere, / parole per fare rumore. / Andiamo a cercare insieme / le parole per parlare.»

Le «parole per ferire» sembra siano quelle su cui più si esercita il linguaggio pubblico di questo nostro tempo. Siamo molto lontani dall’utopia di Totò il buono, il personaggio creato da Cesare Zavattini, il quale sognava, in Miracolo a Milano, un mondo in cui «Buongiorno voglia davvero dire buongiorno».

Chissà se in questi giorni in cui ci palleggiamo continuamente gli «Auguri» tra conoscenti e sconosciuti, almeno per qualcuno questa parola possa voler dire veramente «Auguri».

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