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Presente storico

VOLONTÀ DI FUTURO

ENZO R. LAFORGIA - 24/04/2020

Dietrich Bonhoeffer

Dietrich Bonhoeffer

Con buona pace di chi vorrebbe privare di ogni senso la celebrazione del 25 aprile (facciamola diventare la giornata dedicata a tutti coloro che sono morti in guerra o nel corso della attuale pandemia, ha proposto qualcuno) e con buona pace di chi, immancabilmente, ogni anno si spertica in esercizi di retorica dell’antiretorica (basta con i discorsi ufficiali e con le rappresentazioni olografiche, ci sentiamo spesso ripetere), noi, ostinatamente, anche quest’anno torniamo a riflettere sul significato e sul valore simbolico di questa giornata. E poiché, come ci hanno insegnato gli storici nostri maestri, ogni volta che ci rivolgiamo al passato per interrogarlo lo facciamo sospinti dalle domande che insorgono nel nostro presente, non possiamo esimerci dal guardare ad avvenimenti accaduti settantacinque anni fa, condizionati dalla straordinaria ed eccezionale situazione in cui oggi ci troviamo a vivere.

La situazione di emergenza, che ormai perdura da mesi e che inevitabilmente condizionerà la nostra vita futura, ha imposto la separazione fisica nei nostri rapporti sociali, ma non ha sopito la nostra vocazione sociale. Abbiamo cercato in tutti i modi di aggirare le distanze (necessarie) e di mantenere vive le relazioni sociali e affettive.

Lo stesso bisogno di superare una distanza, questa volta storica, sentiamo sorgere in noi oggi. Ci stavamo preparando tutti (o quasi tutti) a festeggiare un 25 aprile diverso, con i suoi settantacinque anni sulle spalle, occasione per fare bilanci, arricchire la nostra conoscenza ed aggiornare le nostre interpretazioni.

La sempre maggiore distanza temporale tra il nostro presente e il luogo generativo di ciò che noi oggi siamo rischia di far sbiadire il valore storico e civile di quegli avvenimenti, dello slancio ideale, dello sforzo collettivo, dei drammi e delle sofferenze di quanto accaduto quasi un secolo fa.

Questo non vuol dire indulgere verso sbrigative semplificazioni. Sappiamo bene che, come ogni oggetto storiografico, anche ciò che chiamiamo Resistenza si offre alla nostra indagine come una figura a più facce e a molte dimensioni. Sappiamo bene che, accanto ad una Resistenza organizzata e consapevole vi è stata una Resistenza «istintiva» (ricorro qui alle definizioni proposte di recente da Marcello Flores e Mimmo Franzinelli nella loro Storia della Resistenza, uscita per Laterza alla fine del 2019; Giorgio Bocca, in Una repubblica partigiana. Ossola 10 settembre-23 ottobre 1944, parlava di una «resistenza passiva e automatica» ed una «resistenza cosciente, politica, che è di alcune minoranze»). Come pure sappiamo che molte e differenti sono state le “Resistenze”: dei militari, dei religiosi, delle donne, degli ebrei, degli operai, degli internati militari e politici, dei non collaborazionisti, degli ex prigionieri alleati. Lo sappiamo.

E non c’è bisogno (ancora!) di rimarcare che i partigiani non erano tutti eroi e che anche in quella esperienza storica non sono mancate zone d’ombra. Sappiamo anche questo. Paolo Murialdi, grande storico del giornalismo, nel raccontare la sua esperienza di partigiano nell’Oltrepò pavese, tra Voghera, Stradella ed il passo del Penice, ricordava con onestà come tra coloro i quali avevano intrapreso la lotta di liberazione vi fosse «chi [era] salito in montagna per rischiare la pelle e chi per salvarla. E, naturalmente, c’è chi di coraggio ne aveva da vendere, anche di fronte ai torturatori, e chi scappava. E ci sono anche dei pochi di buono». E tuttavia, pur osservando quel «conglomerato umano e sociale di tante individualità», Murialdi poteva riconoscersi in un «“noi partigiani” perché quassù ci uniscono il moto dell’animo e le speranze».

Le speranze, evidentemente, non erano le stesse per tutti. E molti non tardarono a manifestare la loro delusione già all’indomani della fine della guerra. Il 25 aprile del 1946, in occasione della prima commemorazione della Liberazione (appena tre giorni prima un decreto aveva stabilito di elevare quella data a festa nazionale), il direttore del «Corriere Prealpino» indicato dal Comitato di liberazione nazionale, il socialista Federigo Noè, così scriveva:

«Una fiammata d’entusiasmo, una vampa immane di gioia tra il crepitare della fucileria: 25 aprile 1945. Una commemorazione pacata, un po’ amara e nostalgica: 25 aprile 1946. Fra le due date, c’è un anno, logoratosi a poco a poco, giorno per giorno; un lento, ma continuo svanire di bei sogni, un consumarsi di speranze. E siamo qui, ora, con molta cenere dinnanzi a noi e con qualche fiaccola ancora accesa.»

Amarezza e nostalgia. Certo, ci fu anche questo. Come pure sappiamo quanto sia stato contorto il percorso compiuto dalla nostra democrazia sino ad oggi e come ancora oggi la nostra democrazia sia fragile. Ma di quel lontano 25 aprile, pur con tutte le sue contraddizioni e sfumature, resta l’anelito per un mondo diverso, la speranza di chiudere con il passato, lo sforzo di molti nel tentativo di realizzare un futuro migliore, che forse non avrebbero mai abitato. Ecco, forse oggi, proprio oggi, riteniamo che ciò che potremmo recuperare da quel lontano 25 aprile sia la «volontà di futuro». Con queste parole il teologo luterano Dietrich Bonhoeffer definiva un certo ottimismo “buono” e che valeva la pena coltivare. Nel momento in cui Bonhoeffer rifletteva sulla speranza e sul futuro, si ritrovava rinchiuso in una prigione tedesca per aver partecipato alla congiura dell’ammiraglio Canaris.

«[…] Nessuno – scrive ancora Bonhoeffer – deve disprezzare l’ottimismo inteso come volontà di futuro, anche quando dovesse condurre cento volte all’errore; perché esso è la salute della vita, che non deve essere compromessa da chi è malato. Ci sono uomini che ritengono poco serio, e cristiani che ritengono poco pio, sperare in un futuro terreno migliore e prepararsi ad esso. Essi credono che il senso dei presenti accadimenti sia il caos, il disordine, la catastrofe, e si sottraggono, nella rassegnazione o in una pia fuga dal mondo, alla responsabilità per la continuazione della vita, per la ricostruzione, per le generazioni future. Può darsi che domani spunti l’alba dell’ultimo giorno: allora, non prima, noi interromperemo volentieri il lavoro per un futuro migliore.»

Dietrich Bonhoeffer finì impiccato il 9 aprile del 1945 presso il campo di concentramento di Flossenbürg.

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