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Società

MESTIERI-GHETTO

FABRIZIO MARONI - 22/05/2020

lavoratoriÈ stata necessaria una pandemia per convincere finalmente un governo a intervenire sulla condizione dei lavoratori agricoli irregolari; e comunque non è bastato ad accontentare molti di quegli stessi lavoratori, in primis Aboubakar Soumahoro, dirigente sindacale dell’USB che da anni combatte per vedere riconosciuta la dignità del lavoro degli ”invisibili”.

E, in effetti, questa sanatoria, sebbene rappresenti almeno un primo grande passo, è stata mossa da comprensibili ragioni di emergenza economica, più che da una seria volontà di occuparsi finalmente di ciò che succede nei campi.

Mi ha sempre colpito il paradosso per cui alcuni mestieri, che per la nostra quotidianità sono così essenziali (non solo il lavoro agricolo ma anche, in questi ultimi mesi, il servizio di rider e fattorini) godono di tutele minime e, soprattutto, di una bassa considerazione nell’opinione pubblica. Non è un caso che gran parte dei lavoratori agricoli stagionali siano stranieri: i proprietari terrieri hanno certamente interesse nello scegliere una manodopera a bassissimo costo, ma è altrettanto vero che “gli italiani non vogliono fare certi lavori”. A dispetto dell’indignazione di una certa destra che vorrebbe dare la precedenza agli italiani, sono pochi i nostri concittadini che si sono registrati per essere assunti dalle aziende nella raccolta stagionale. Ma se anche un numero maggiore di italiani fosse disponibile improvvisamente a lavorare nei campi, ci sarebbe un altro problema: molti imprenditori si sono attivati per far arrivare la forza lavoro dall’estero e questo perché in Italia non c’è manodopera specializzata. Non ci si improvvisa braccianti, insomma: servono competenze e conoscenze.

Questa necessaria regolarizzazione dà la misura di un mestiere-ghetto; un mestiere per stranieri, per altri; un mestiere dimenticato. Certo, è anche un mestiere duro. E, forse, la sanatoria è una (inevitabile) conferma istituzionale di questa ingiusta considerazione che abbiamo per il lavoro agreste.

Ci siamo accorti che molta produzione agricola nostrana dipende da chi lavora nei campi, per una paga misera, ogni tanto lasciandoci persino la pelle; è così da anni perché un intero sistema di produzione si affida indirettamente al caporalato (non è un caso che lo stesso Soumahoro abbia parlato di “liberare i braccianti dal potere della GDO”).

La speranza è che i lavoratori agricoli (i rider, le badanti, le colf) possano veder giustamente apprezzata la dignità del loro lavoro, nella stessa misura con cui ora ne scopriamo l’importanza. Ma la speranza è anche che il lavoro agricolo, forse il più antico del mondo, possa essere rivalutato, riscoperto e incentivato, se non altro per il ruolo fondamentale che svolge nella vita di tutti noi: creeremmo nuovi posti di lavoro, garantiremmo più tutele ai lavoratori e, forse, ritroveremmo almeno un frammento di qualcosa di dimenticato, che attiene al rapporto con la terra; ma quest’ultimo punto non appartiene né alla politica né all’economia.

Un primo passo è stato fatto, di sicuro; ma ora ci chiediamo: cosa accadrà ai lavoratori regolarizzati quando scadranno i permessi di lavoro, quando finirà la stagione? C’è un progetto a lungo termine, oppure l’interesse per le condizioni dei lavoratori tornerà con loro nell’oblio dell’irregolarità non appena l’emergenza sarà finita?

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