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Opinioni

A CHI RIVOLGERSI

FABRIZIO MARONI - 07/10/2022

pdSono passate due settimane dalle elezioni del 25 settembre. Il Partito Democratico si avvia verso una nuova fase congressuale. Secondo gli scettici sarà un festival della retorica, una sequela infinita di interventi inconsistenti (abbiamo già sentito alcuni dei classici tormentoni post-elettorali: dobbiamo ripartire dai circoli, dobbiamo tornare nelle periferie, ci votano solo al Bosco Verticale ecc.). Se così fosse, non siamo sorpresi. È ormai chiaro che il PD è la nuova Democrazia Cristiana: diviso in correnti, fazioni e potentati governati dai soliti vecchi dinosauri, dove tutto cambia perché tutto resti uguale. Il PD è incredibilmente riuscito a rendere la parola «sinistra» sinonimo di establishment, élite: quanto di più lontano dalle persone a cui vuole rivolgersi. È il paradosso di un partito odiato dai poveri, votato dai ricchi che vogliono aiutare i poveri.

Da altra parte, c’è chi ha fiducia nel prossimo congresso. In effetti, questa volta la sensazione è di un momento fatidico: o il PD cambia radicalmente o scomparirà. Non solo gli elettori, ma anche gli iscritti sono in diminuzione. Questa consapevolezza c’è ed è stata espressa da tante voci, interne ed esterne al partito. Primo tra tutti il segretario dimissionario, il quale in una lettera agli elettori scrive che intende rimettere in discussione tutto, iniziando da logo e nome. Il PD è in cerca di un’identità e di un’anima.

Queste categorie – identità, anima – mi hanno fatto riflettere in questi giorni. Mi sono chiesto cosa intende dire chi dice che il PD non ha un’identità, un’anima. Per quanto riguarda quest’ultima, mi vengono in mente le parole di un amico: «Nemmeno il PD crede a quello che dice». Questa affermazione mi è sembrata carica di verità. Le ragioni sono diverse. Il compromesso necessario fra le diverse correnti del partito smorza la forza propositiva; le leggi finiscono per essere degli ibridi che non soddisfano nemmeno chi le ha scritte. Una cattiva comunicazione è certamente un altro fattore importante. Ma la causa principale della poca credibilità del partito, forse, è che da dieci anni è una forza di governo. Le buone intenzioni e il senso di responsabilità hanno orientato le scelte del partito nei momenti difficili del Paese, bisogna darne merito al PD. Ma alla fine il partito si è calcificato in questa posizione. La conservazione dello status quo sembra essere la priorità; per molti eletti ed elette tra le file del partito lo è sicuramente. Risultato: il PD ha esaurito qualunque forza di cambiamento. Una massiccia sostituzione della classe dirigente sembra essere l’unica soluzione in questo senso.

Per quanto riguarda l’identità, il discorso è più complicato. Il PD non deve capire cosa è, ma decidere cosa vuole essere. Un’identità, tutto sommato, sembra esserci: europeismo, ambientalismo, antifascismo, lotta per i diritti civili, accoglienza come politica migratoria e sostegno ai lavoratori. Cosa non funziona? Sicuramente, come già detto, manca convinzione nelle proposte; una classe dirigente più coesa risolverebbe largamente il problema. Ma altre questioni sono aperte. Scegliere cosa essere, per un partito, significa inevitabilmente scegliere a chi rivolgersi. Oggi il PD si rivolge a un elettorato benestante, istruito e prevalentemente urbano. Le priorità di questa categoria di elettori sono diverse da quelle dei ceti popolari e del «popolo delle partite IVA». In questa campagna elettorale, il PD ha giocato sulla contrapposizione con i fascisti, gli illiberali, gli antieuropeisti e i negazionisti. Ma per molte persone, queste non sono priorità. Non significa che non condividano questi valori, ma hanno bisogni diversi. Quali bisogni vuole rappresentare il PD?

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