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Presente storico

DISCRIMINAZIONE CHE RESISTE

ENZO R. LAFORGIA - 10/07/2020

braibantiSono fortunato. Vivo in un Belpaese, in cui tutti sono sempre pronti a manifestare i propri buoni sentimenti e ad esternare la propria sovrabbondante umana solidarietà. È il Paese delle collette alimentari, delle raccolte fondi per ogni buona occasione, delle preghiere collettive anche per i grandi malfattori. È il Paese in cui acquistiamo il nostro posto in Paradiso con un tanto al chilo.

È notizia di questi giorni quella dell’avvio di un’istruttoria messa in atto da parte dell’Ordine dei medici della nostra provincia nei confronti di un primario che, il 25 marzo scorso, riferendosi al paziente che aveva sotto i ferri, si sarebbe lamentato del tempo perso per «operare questi froci». Perché, si sa, siamo troppo buoni per riconoscere il sacro e inviolabile valore di persona umana proprio a tutti.

Generalmente, nei confronti dell’omoaffettività, l’atteggiamento comune delle persone buone e pie è che questa o non esista o non debba esistere. E infatti, di anno in anno, aumenta il numero di lesbiche, gay, bisessuali, transessuali (o trans), intersessuati (o intersessuali), che vengono picchiati, derisi, discriminati, fatti oggetto di ricatto, presi di mira da vere e proprie campagne d’odio.

Chi sa quanti oggi ricordano il nome di Aldo Braibanti. È morto il 6 aprile del 2014 a Castell’Arquato, vicino Firenzuola, dove era nato nel 1922. Aldo Braibanti è stato molte cose: antifascista e partigiano (aderì a Giustizia e Libertà e fu arrestato nel 1943 e nel 1944); militante comunista nel dopoguerra (lasciò ogni incarico da dirigente nel 1947 e ruppe definitivamente con il Pci nel 1955); promotore di arti e di artisti; filosofo; poeta; traduttore; esperto mirmecologo.

Ma il suo nome divenne noto al grande pubblico, nel momento in cui fu accusato di aver plagiato due ragazzi e per questo motivo fu processato. Il reato di plagio era previsto dall’articolo 603 del Codice penale e definiva il comportamento di «chiunque sottopone una persona al proprio potere, in modo da ridurla in totale stato di soggezione». La pena prevista era la reclusione da cinque a quindici anni. Inutile dire che quel reato era un retaggio del buon vecchio Codice Rocco del 1930 (un’ottima annata, direbbe qualcuno). Nel 1981 è stato dichiarato «costituzionalmente illegittimo».

Braibanti fu denunciato dal padre di uno dei due ragazzi, un giovane di 23 anni. Pur di allontanarlo dall’influenza di Braibanti e delle sue «idee» e «dottrine», questo ragazzo, Giovanni, fu prelevato forzatamente dai suoi stessi familiari e ricoverato in una clinica per la cura di malattie nervose (in sostanza un manicomio, dove fu trattenuto per quasi un anno e mezzo). Era il 1964.

Sarebbe troppo lungo ricostruire il processo. Lo ha fatto ottimamente Gabriele Ferluga con il libro Il processo Braibanti, nel 2003. A noi, qui, basti dire che dopo quattro anni, Aldo Braibanti fu condannato a nove anni di carcere. Fu il primo e l’unico ad essere processato e condannato per il reato di plagio nella storia italiana.

In realtà, sotto accusa, durante il processo, non fu solo Braibanti, ma l’omosessualità. Tutti volevano sapere se dietro la vaga e opinabile accusa di plagio si celasse una relazione omosessuale. Anzi, come dichiarò il sostituto procuratore, la convivenza di Braibanti con i giovani «si sarebbe svolta in un clima di perversione sessuale in relazione alla quale qualche teste ha fornito descrizioni ampie e dettagliate che fanno pensare a forme di ossessione sessuale». Non fu accolta la richiesta di Giovanni, che avrebbe voluto essere ascoltato dai magistrati e non dai medici. Né furono prese in considerazione le smentite di Braibanti circa le «ampie e dettagliate» descrizioni di comportamenti morbosi e ossessivi.

Il processo si aprì il 12 giugno 1968. Braibanti era già detenuto da sette mesi. La sentenza giunse il 13 luglio. A nulla servì la mobilitazione di intellettuali e scrittori. L’omosessualità era stata condannata. Nelle 177 pagine della sentenza, si leggono affermazioni di questo tipo: è possibile che «la tendenza omosessuale induca a stati psichici vicini alle neurosi ossessive o coatte, rendendo più facile la suggestionabilità del soggetto, specie se già caratteriologicamente proclive alla neurosi». Era, l’omosessualità, lo strumento e la conseguenza del plagio. E l’omosessualità era considerata, nelle parole della sentenza come in quelle del pubblico ministero, una questione clinica, una patologia.

In appello, la condanna fu ridotta a quattro anni, di cui due condonati per «meriti resistenziali». Il reato di plagio fu ridimensionato a «tentativo di plagio».

Aldo Braibanti fu rimesso in libertà il 5 dicembre del 1969, dopo due anni di carcere. Dieci anni dopo, in un’intervista rilasciata a Felix Cossolo, Braibanti commentò così l’esito della sua vicenda giudiziaria: «Bisognava trovare un compromesso secondo il quale io potessi essere rimesso in libertà e i giudici non ci facessero una figura di merda».

Oggi, il reato di plagio non c’è più. Di omosessualità si parla liberamente. Ma a condizione che non si manifesti. Perché nel nostro Belpaese, come nell’Italia degli anni Sessanta, l’omosessualità o non esiste o non deve esistere.

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