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Opinioni

IDENTITY POLITICS

FEDERICO SCHNEIDER - 10/07/2020

identityChi riguardo agli omicidi di George Floyd e Rayshard Brooks parla di razzismo, sta prendendo fischi per fiaschi: il problema vero (ben noto e annoso) è un altro, e riguarda la brutalità e violenza con cui si mantiene l’idolo più caro agli americani— “law & order”. Altrimenti Trump non avrebbe certo risposto alle manifestazioni di protesta twittando (a nuora perché suocera—ovvero i mercati—intenda) proprio quelle due magiche paroline, e annunciando l’intervento dell’esercito per sedare i moti.

Se dunque non è il razzismo il problema che sta all’origine dei recenti fatti di cronaca di Minneapolis e Atlanta, perché mai gli americani si sono mobilitati in massa contro il razzismo? Qualche considerazione più puntuale sulla politica americana attuale penso possa servire a spiegare questo curioso fatto. Innanzitutto va presa in considerazione una realtà effettuale (da me toccata con mano in anni vissuti in università statunitensi) che si chiama “identity politics”: ovvero un’ideologia basata non tanto su concrete e propositive istanze razziali, etniche e di genere, quanto più su una percepita, condivisa identità di popolo soggiogato da un’azione di governo attribuita (con vertiginoso anacronismo—dopo ben otto anni di presidenza Obama) all’uomo bianco e alla sua cultura, a sua volta approssimata (con scandalosa arbitrarietà) ad una cultura oppressiva e razzista, tra le altre cose. Insomma, semplificando un po’, si tratta di un’ideologia grazie alla quale minoranze razziali, etniche e di genere (LGBT) si possono riconoscere indiscriminatamente oppresse dallo stesso oppressore maschio, bianco (cioè razzista per antonomasia), che detiene il potere.

Che altro potevano fare coloro i quali tale ideologia abbracciano (e sono milioni), alla vista di un poliziotto di razza bianca che uccide brutalmente un uomo di colore, se non trovare conferma a ciò che erano già disposti a credere, e quindi scendere in piazza per manifestare contro il razzismo? Peccato però che abbiano preso fischi per fiaschi, per i suddetti motivi.

Ma c’è di più: quando una siffatta ideologia diventa militante, le reazioni possono essere triviali, come quelle di chi, per contro, rivendica la supremazia del maschio bianco. Tuttavia esse possono anche (specialmente in un paese in cui i bianchi sono ancora la maggioranza dell’elettorato) ricompattare una militanza politica di segno opposto che potrebbe riuscire a fare restare alla Casa Bianca Trump per altri quattro anni. C’è chi ama mettere in stretta relazione i due fenomeni deducendo (e prendendo di nuovo fischi per fiaschi) che l’elettorato Repubblicano e il suprematismo bianco sono la stessa cosa, e ha trovato anche un termine – “populismo” – che li conterrebbe entrambi. Sono fantasie! Al più si tratta di fenomeni fisiologici (o risultanti dalla suddetta politica identitaria), che ora marciano separatamente per poi scaricarsi insieme nelle urne e così (forse) avere la meglio su ciò che li ha inconsapevolmente corroborati.

C’è poi un’ultima cosa da aggiungere sull’ “identity politics”. Come ogni ideologia, essa ha proseliti, i quali si considerano un po’ gli hugoiani misèrabiles di oggi (e non si può certo biasimarli, se miserabili lo sono per davvero!). Essa ha però anche dei maître à penser, che tutt’altro che miserabili sono, in quanto tacciono ciò che è emerso dal ragionamento appena svolto—cioè che la politica identitaria americana è un’ideologia, e non una scienza, per di più viziata da una scandalosa arbitrarietà, e che perciò spesso prende fischi per fiaschi. Sono dunque dei cattivi maestri; e ciò che è peggio, sono maestri acquiescenti rispetto al tramutamento della Politica (che è una cosa seria) in mera strategia di potere, che vive delle profonde divisioni nel Paese. Quanto pericolosa sia una tale strategia lo attestano i vari episodi di guerriglia urbana cui abbiamo assistito.

E a chi in Italia si sente al di sopra di tutto ciò, direi, come il poeta, “Fiorenza mia, ben puoi essere contenta / di questa digression che non ti tocca”. Infatti i suddetti misèrabiles di oggi non sono certo un’esclusiva USA, e non lo sono neanche i cattivi maître à penser. Ne sono prove empiriche sia una ben nota statua recentemente imbrattata (e le relative rivendicazioni) sia le curiose chiacchiere su un presunto ritorno del fascismo che hanno tenuto banco a lungo l’anno scorso sia certi imperativi come “inclusione”, specialmente quando diventano condizioni sine qua non per l’erogazione di fondi europei… .

Per inciso, pensando al poema dantesco e ai fischi presi per fiaschi appena ricordati, mi chiedo: ma non è che prima o poi a qualcuno a Bruxelles verrà in mente di depennare la Commedia dai curricula scolastici, perché un poema che manda gente all’inferno non è compatibile con la categoria dell’“inclusione”? Domanda idiota? O categoria idiota? Vabbe’ a buon intenditor poche parole, e soprattutto nessuna ragione per sentirsi superiore rispetto agli americani.

In fine, sarebbe un errore se qualcuno prendesse quanto detto sinora come un’esternazione irrispettosa delle idee di uguaglianza che vengono rivendicate nelle manifestazioni attualmente in corso in USA. Poiché l’unica cosa che mi premeva di sottolineare è che anche la più sacrosanta delle cause si può trasformare in una causa persa, se chi la propugna prende fischi per fiaschi.

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