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Attualità

CI SONO IO STASERA

GIOIA GENTILE - 18/12/2020

vicinoAvevo detto che non volevo più parlare del Covid e, come al solito, mi smentisco. Ma ciò su cui vorrei riflettere in queste righe ha a che fare con la pandemia solo marginalmente e riguarda invece la potenza espressiva delle parole più semplici, apparentemente insignificanti, se esprimono emozioni e sentimenti forti, o se, per pudore, vogliono velarli.

La mia riflessione nasce da una notizia trasmessa al TG1 qualche giorno fa: all’ospedale di Cinisello Balsamo consentono ai familiari dei pazienti Covid in fase terminale di dare l’ultimo saluto ai propri cari.

Sullo schermo appare una signora anziana che racconta la sua esperienza: esprime un dolore composto, non si dispera, non piange, solo a tratti le si inumidiscono gli occhi; però la voce le si incrina quando ricorda che il marito era stato portato via dall’ambulanza in tutta fretta, “addirittura in pigiama”. Mi è parso strano, in un primo momento, che questo particolare la commuovesse più di altri, ma, ripensandoci, ho letto in quelle parole molto più del loro significato letterale: un’esigenza di rispetto di sé e di dignità da conservare anche nelle situazioni più difficili, e il rimpianto, la sofferenza per non aver potuto garantirli alla persona che amava.

Continua poi il suo racconto struggente e ricorda che alla fine, quando si allontana dal vetro che la separa dal suo compagno – e sa che quella è la separazione definitiva – un’infermiera le si avvicina e le dice “ci sono io stasera”.

Ci sono io stasera. Quattro parole soltanto: perché tu sappia quale sarà il sorriso che tuo marito vedrà per ultimo, quali le mani che lo accarezzeranno e che terranno le sue. Anzi, meglio: perché tu sappia che io sarò il tuo sorriso, le tue mani. Quattro parole per comunicare una complessità di sentimenti e pensieri inesprimibile.

Questo episodio mi ha ricordato un’esperienza analoga vissuta da un’amica. Si trovava in ospedale, dove era appena morto il suo compagno. Un’ infermiera, che neppure conosceva e che aveva saputo del suo lutto, le dedicò uno sguardo che lasciava trasparire tutto ciò che a voce non avrebbe saputo dire e le chiese: “vuole un caffè?” Una frase che potrebbe sembrare fuori luogo, inopportuna, addirittura ridicola e che, invece, per lei fu abbraccio, solidarietà, fratellanza. Ancora adesso, quando ne parla, si commuove.

Parole. Possono ferire, distruggere, ma possono anche carezzare, comprendere, abbracciare. Bisognerebbe ricordarlo sempre. Ma soprattutto in questo momento, in cui gli abbracci ci sono preclusi, bisognerebbe saper trovare quelle che fanno bene. Non è necessario essere letterati. Basta essere buoni.

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