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Cultura

CERCHIO DI SALVEZZA

LUISA NEGRI - 24/12/2020

santucciIn uno dei suoi più bei libri, Il cuore dell’inverno (Piemme, 1992), Luigi Santucci (1918-1999) ci parla della vecchiaia. E si accosta al tema proponendoci, tra meraviglia e fede, memoria e speranza, quasi un solare testamento. Nel quale sostiene e predica la felicità possibile in un mondo che sembra essersi arreso. Gli spunti offerti dall’opera sono diversi ed è quasi certo che, in qualunque pagina scivoli lo sguardo del lettore, ci sarà un pensiero forte su cui riflettere, un sentimento da condividere, una speranza da accendere.

Si parla anche del Natale nel capitolo Natale Apocrifo, ed è questo uno dei momenti più alti dell’opera.

Ve ne proponiamo uno stralcio, con l’augurio che le parole dello scrittore milanese portino fiducia e serenità, soprattutto in chi quest’anno, viandante nel cuore dell’inverno, è stato messo a dura prova.

“Natalizio, come per favore del cielo mi trovo ad essere, m’è parso insensato che il Natale restasse circoscritto in quel semel in anno tra la Vigilia e Santo Stefano: per di più frastornato e travolto dalla filistea baraonda di auguri, pacchetti e scorpacciate che in quei giorni ci vengono imposti. Cosi io mi prendo spesso l’arbitrio di operare strani trapianti e scomporre il Natale nei temi e nei luoghi, celebrando quella ricorrenza quando non ricorre affatto, solo per una balzana nostalgia di quelle emozioni. Quante volte, in piena calura estiva, il rintocco solitario d’una campana o l’incontro con un albero scavato dal fulmine, lo scrutare nuotando il fondo marino dove si muovono granchi o minuscoli pesci, o ancora l’attesa del tram sotto un acquazzone di primavera hanno fatto scoccare in me, per inesprimibili traslati, lo stupefatto brivido che ci descrive Giacomo (Vangelo Apocrifo, n.d.r.). Quel liquefarsi del cuore che solo si prova da bambini quando, consumate le febbrili ore della Vigilia, dentro di noi cadeva quella mercuriale goccia attesa da un anno del 25 dicembre. ‘Ecco’, mi dico allora, ‘anche adesso, nell’ora più impensabile e distratta, alla Madonna si rompono le acque…’.

Con quel ‘terzo occhio ‘natalizio ho attraversato dall’infanzia la mia ormai lunga vita. Facendo del Natale una sorta di archetipo interiore, ‘una nota tenuta’; o -se si preferisce- una bianca ‘paranoia’. Della quale tuttavia non intendo liberarmi, anche se familiari e amici ne cavano talvolta lo spunto d’una bonaria canzonatura. (…) Non hanno torto. Affetti, amori e amicizie, persone animali e cari oggetti sono portato a raffigurarli tutti come campiti entro quel periodico arredo che all’Epifania suole tornare nei domestici ripostigli. Io so però che il mio dar loro la cittadinanza di Betlemme non è del tutto una forma di ritardata crescita. E una fisiologica gelosia; un tentativo di imprigionamento contro le diserzioni, le fughe, gli addii. Un inscrivere i miei beniamini in quel cerchio di salvezza, di durata nella gioia che la Capanna simboleggia. Pago -ed è giusto- quell’artificio con inevitabili lagrime. Quando una morte, o il semplice divenire dei destini umani apre un vuoto in quel mio autobiografico muschio m’accorgo, ogni volta con sorpresa, che la vita non è un’accolta d’indeteriorabili statuette, non quaggiù almeno.

Ma ho imparato allora ad allargare il mio troppo soggettivo presepio. Da qualche tempo, il giorno della Vigilia, vado a trovare nella sua cella il mio ‘amico’ ergastolano, che con molliche di pane si è fabbricato un ammirevole presepio e ogni anno mi regala un personaggio da lui fatto apposta per me. E salgo poi ancora nell’abituro della mia ‘amica’ prostituta a riposo, la quale -un poco svampita- insiste nel mettermi in tasca collanine e bigiotterie della sua mondana carriera perché le faccia luccicare davanti alla sacra Grotta. “Buon Natale” dico a lui, dico a lei, abbracciandoli. E nel loro sorridermi all’uscita so che Cristo, col suo rinascere oggi, li ha fatti più innocenti e più felici di me. Che nel mio presepio c’è un posto d’onore anche per loro. Un fratello che ha ucciso e una sorella che ha venduto la sua carne sui marciapiedi”.

“Ben dunque seminiamo il Natale, la sua incomparabile grazia a piene mani nei nostri piccoli figli. Un giorno forse ritroveranno in esso la ragione di non disperare, di non capitolare alla disominizzazione che ci accerchia. Il rinsavimento e la salute potranno cominciare, per i nostri posteri, da un suono di zampogna”.

Sembrano parole di divinazione scritte per noi, in questi giorni di incertezza e di morte in cui il presepe del mondo ha perso tante comparse.

Ma quest’ultima considerazione di Luigi Santucci lascia aperta la porta alla speranza, e a un futuro vincente per i più giovani.

Buon Natale!

 

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