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Stili di Vita

IL SACCHETTO

VALERIO CRUGNOLA - 05/02/2021

coda

In coda alla mensa di via Luini

La povertà è il grande rimosso del nostro vivere. Ci ha accompagnato per millenni. Nel volgere di un secolo ci siamo illusi di averla sconfitta senza doverla abolire per decreto con trionfalistici annunci dal balcone. A partire dalla grande decrescita infelice del primo decennio del XXI secolo l’illusione è sfumata, non soltanto per gli italiani. La povertà non è più una paura oscura, un’ipotetica possibilità, il frutto di una disavventura, un rubinetto che sgocciola, alla peggio un rischio corso da chi prova a prevenirla per evitarla. C’è, si manifesta, si vede, ci tocca e si tocca.

La povertà è appollaiata in cima a un iceberg. Sotto la linea di galleggiamento della massa di ghiaccio si cela uno strato sempre più esteso di persone gravemente impoverite, che faticano a pagare un affitto, un mutuo, una rata, le bollette, costrette sia a rinunciare al superfluo che ad economizzare sulla quantità e la qualità del necessario pur di mettere insieme il pasto con la cena.

Il crescere del malessere è più che proporzionale al decrescere del benessere. A sua volta l’accesso al benessere diviene un vicolo sempre più stretto, più lungo e più buio. Il COVID non è responsabile né dell’impoverimento diffuso né dell’arricchimento oligarchico: ha solo impresso una forte accelerazione a processi già in atto.

Ogni giorno misuro a spanne la crescita delle dimensioni della povertà a Varese. Non sto parlando di Bangui, ma di una città del Nord-Ovest italiano con un elevato reddito medio pro capite, grandi ricchezze accumulate e alti livelli di risparmio.

La Casa della Carità di via Marzorati offre pasti, abiti, docce e ospita associazioni di volontari in ambito sanitario e assistenziale. Ogni giorno tra le 10.30 e le 11.30 la mensa distribuisce, grosso modo, un minimo di 150 sacchetti fino a un massimo di 250. Ma il numero delle persone aiutate è decisamente più esteso. Prima del COVID queste persone erano, sempre a spanne, molto meno. Le ho viste aumentare lentamente, così lentamente da essermene accorto solo oltre una certa soglia. Mi dicono che presso le suore di via Luini il fenomeno raggiunge dimensioni più ampie.

Anche la composizione delle persone destinatarie del servizio sembra cambiata. Prima della pandemia notavo alcuni emarginati cronici, non di rado con alterazioni psichiche, per lo più italiani, e donne anziane, ex badanti provenienti per lo più dai paesi sorti dalla disgregazione dell’Unione Sovietica. Durante l’attesa vi erano piccoli litigi e tensioni tra la componente femminile e quella maschile: ne erano protagonisti alcuni alcoolisti, facilmente alterabili.

Ora a fruire del servizio sono poveri tra i 40 e i 70 anni, in lieve maggioranza maschi, quasi tutti italiani. Anche tra le donne prevalgono le italiane. Non ci sono più le risse degli anni passati, e le regole sono rispettate, anche se il distanziamento non è perfetto. I gruppi riconoscibili dai tratti somatici o dal colore della pelle sono poco rappresentati. Non hanno nulla da nascondere: sono solo più discreti, evitano di allinearsi in coda arrivando poco prima della chiusura e se ne vanno in fretta. Oppure preferiscono un sostegno reciproco all’interno del gruppo nazionale o religioso.

Molti si allontanano con il sacchetto, altri lo consumano nei pressi, di nascosto, perché la povertà è uno stigma che nasce da dentro in chi non è abituato a conviverci. La povertà è un pudore antico che oggi riaffiora in una società spudorata e impudica. Solo oltre una certa soglia, che nasce dalla ripetuta constatazione dell’altrui indifferenza, subentra la rassegnazione e si lascia che i più, gli sbadati, guardino senza vedere.

Stupisce il numero elevato, stupisce la relativa compostezza, stupiscono i pedoni che, notando la coda lungo la via, si spostano sul lato senza marciapiedi per paura del contagio e del contatto, anche se tutti indossano la mascherina. Sono automatismi, atti irriflessi. Nessun incazzoso urli al razzismo o blateri banalità accusatorie. A chi non capita, da un anno a questa parte, di scostarsi un istante dal marciapiede lasciando il passo ad altri come un qualunque fra’ Cristoforo pentito?

Posso dire con certezza che il sindaco Davide Galimberti, l’assessore ai servizi sociali Roberto Molinari e l’assessore al bilancio Cristina Buzzetti hanno fatto molto in questi anni e a maggior ragione in questi drammatici dodici mesi, per affrontare i problemi posti dalla povertà e dalla mostruosa diseguaglianza sociale che caratterizza l’Italia attuale.

Ma nemmeno il molto basta. La politica può poco. Anche quando fa bene e si adopera, il suo impatto è ridotto. Un’amministrazione locale può alleviare la povertà, renderla meno dura, meno ostile alla vita. Sta sul pezzo, il problema le è prossimo e fa quel che può. Non si tratta di cure palliative: sono cure efficaci ma non risolutive. Per affrontare la povertà occorrono più risorse, un moto solidaristico e un impegno sociale più forti, una direzione centralmente coordinata delle istituzioni, del mondo economico, del sapere scientifico, dei sistemi di comunicazione, del terzo settore e del volontariato oblativo. Facile a dirsi. Da mezzo secolo gli attori maggiori o divergono o vanno all’unisono in direzione opposta.

Il COVID ha aumentato le disparità. In ordine gerarchico la prima emergenza, globale e locale, è l’ingiustizia sociale, anche perché nessuno la contrasta. L’equità non porta voti. I volti dei poveri cristi sono fantasmi non identificabili e senza indirizzo, anche quando hanno i documenti, un alloggio, qualche euro in tasca e la pelle rigorosamente bianca. Non fanno rumore, e chi se ne cura lo fa in silenzio. Così l’evidenza visiva non si trasforma in percezione diffusa e di qui in azione politica. I poveri non muovono dalla baraccopoli verso il centro di Milano come nel Miracolo zavattiniano. La povertà è anche povertà di attori e povertà degli attori.

I segnali d’allarme ci sono, ma finché l’incendio non divampa i pompieri restano in caserma. La povertà non è una disfunzione contingente del capitalismo, ne è un pilastro e il frutto. Se il capitalismo reale insiste a reggersi sull’iniquità, si martella gli attributi da solo. Peggio: martella quelli di tutti e del pianeta. Credendo di curarsi aggredirà la democrazia. È già accaduto. Come tra le due guerre, arriveranno gli incendiari al posto dei pompieri. Solo che questa volta non avremo scampo.

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