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Gente comune

A PATA VÈRTA

DEDO ROSSI - 12/03/2021

cantare-sotto-la-docciaMa vi siete accorti che non canta più nessuno? Intendo quel canto che arriva spontaneo e solitario, allegro o malinconico o anche senza ragione, solo perché una certa musica ci ruota attorno. Sia chiaro: gli appassionati del bel canto non mancano di certo, quelli che frequentano il coro della parrocchia o un gruppo che ha nel repertorio canti popolari o musiche colte.

Quando dico che non canta più nessuno, mi riferisco ai cantanti “della casa e della strada”, quelli che intonano una canzonetta mentre lavorano o passeggiano, quelli che nell’auto, a radio spenta, emettono canti solitari. Insomma: voci senza musica.

Ecco, fateci caso, non canta più nessuno. E non fischietta più nessuno. Quel fischiettare leggero, soffice direi, che fa pensare ad un ciclista allegro. O il “cifolare” di chi sta seduto su una panchina e si guarda semplicemente in giro, come se il fischio fosse il suo canto senza parole, il centro del suo pensiero, anzi fosse il suo stesso unico pensiero.

 Non voglio inoltrarmi in particolari analisi di cui non ho competenza. Ma la fotografia è questa. Eppure il canto solitario ha accompagnato decenni della nostra vita. Il “cantar tra i denti”, il canticchiare sopra pensiero aveva un senso: era la confessione spontanea di un sentimento, di uno stato d’animo. Esprimeva per lo più leggerezza. E Dio solo sa di quanta leggerezza abbiamo bisogno.

Dalle finestre aperte, le donne che facevano i mestieri di casa cantavano. A volte canzoni banali, la barca va e sarà quel che sarà, ma il canto non mancava, accompagnava il bucato e i materassi da rivoltare. Cantare da soli permetteva il lusso di essere stonati o di gorgheggiare secondo il proprio gusto: un valzer poteva diventare un tango, una mazurka un foxtrot o un lento sussurrato. Tutto era permesso.

Il Ferrari, postino di Belforte quando arrivava in bicicletta a consegnare la posta era sempre preceduto dal suo canto, anche quando pioveva. Le sue erano le canzonette del momento, “Perché perché la domenica mi lasci sempre sola”. Non ricordava altre parole e le sostituiva con una infilata di “la, la, la”. Ma nei “la, la, la” ci leggevi il suo buon carattere e la contentezza di poter fare un lavoro che non lo obbligava tra quattro mura.

O il Primo Vanetti, quello della valigeria: percorreva il marciapiede di via Podgora per raggiungere il Bar Giardino, fischiettando mani in tasca. Un fischio lieve, un ritmo su cui tenere il passo, forse “La cumparsita” o che so altro.

Un vicino di casa ogni mattina accompagnava i suoi lavori cantando con una bella voce da tenorino canzoni un po’ fuori tempo: “Voglio vivere così col sole in fronte” con il suo accento cremonese, a cavallo tra Lombardia ed Emilia. Solo lui sapeva dire “sole” come se la parola avesse tre esse prolungate e radiose. Ma il meglio lo esprimeva nella strofa: “Ah, ah (pausa ad libitum), oggi amo ardentemente quel ruscello impertinente menestrello dell’amor”. Dicevano: “Ha la voce di Tagliavini”. Aveva un repertorio vasto e datato ma anche nei pezzi dai testi malinconici sapeva metterci quella sua allegria padana, in cui respiravi aria di cotechini, salamelle e donne prosperose.

Il giardiniere che veniva a Belforte a “fare i lavori grossi”, quelli di inizio o fine stagione, arrivava da Venegono. Per tutto il tempo del suo lavoro a voce moderata, quasi tra sé e sé, cantava. Cantava canzoni strane, a me ignote. In genere i testi mi facevano una certa impressione. Parlavano di bambini abbandonati da mamme di facili costumi (Mamma mammina sei senza pietà, se m’abbandoni di me che sarà e via dicendo), di drammi amorosi, di donne sedotte e abbandonate da uomini terribilmente senza cuore. Ma soprattutto quando, mettendo le mani tra i cespugli per pulire il terreno, se ne usciva con “Vipera, vipera, sul braccio di colei ch’oggi distrugge tutti i sogni miei”. Pausa. Forse ha davvero trovato una vipera, pensavo. E tiravo il fiato ogni volta quando con maggior forza riprendeva “Era il tuo simbolo, l’atroce simbolo della tua malvagità”. Meno male.

Da ragazzo a tutti noi piaceva cantare o fischiare. Quando facevo il bagno, rigorosamente il sabato pomeriggio, tra i vapori della stanza mi capitava di cantare mutando la voce, trasformandola in voce tenorile o gutturale, così tanto per gioco. Un’estate, finestre aperte, cantavo con voce di gola “Mi sono innamorato di te, perché non avevo niente da fare”. Attimo di silenzio. “Mùcala lì, và a laurà”, era stata la risposta urlata dal cortile di fianco. Ho riconosciuto la voce del Peppino “Valvolina” commesso del For Car. E da allora non ho più cantato in bagno, neppure sottovoce.

La perdita dell’abitudine del cantare sia in pubblico che in momenti solitari è uno dei cambiamenti degli ultimi decenni, un cambiamento mai analizzato, mai oggetto di rapide riflessioni. Eppure meriterebbe un’analisi. Cosa è venuto meno? Cosa è successo? Che cosa ci ha cambiato tanto da toglierci il canto?

I ragazzi ascoltano oggi più musica di quanto se ne ascoltava un tempo. Ricevono suoni, tutt’al più si sovrappongono al canto che ascoltano, lo accompagnano, lo imitano. Ma non hanno l’abitudine al canto autonomo, solitario, quel cantare che mette in rapporto la propria voce e i propri sentimenti senza che ci sia una base musicale. Insomma, quel canto che è solo nostro. Noi, soli, con la nostra voce. O sbaglio?

Anche il cantare il compagnia è venuto meno, quel cantare legato al cibo insieme (complice qualche bicchiere)o al mondo della montagna. Quel cantare, come dicono nel Canton Ticino, “a pata vèrta”, a squarciagola, dove la bontà del canto è valutata in proporzione allo sforzo vocale emesso. Ma questa è un’altra storia.

Che si possa tornare a cantare in solitaria? Proviamo a farlo con delicatezza, per non disturbare i vicini oggi che attraverso i muri delle case si sente tutto. Non importa se siamo stonati, siamo noi il nostro pubblico. Torniamo a cantare sotto la doccia, piano, senza urlare. Spegniamo la radio e cantiamo nella cella sicura della nostra auto. Scopriamo la nostra voce, noi che della nostra voce abbiamo perso la cura dell’ascolto. O passeggiando, inumidiamo le labbra e teniamo il ritmo del cammino sul nostro fischiettare. Proviamo. Possiamo permetterci il lusso di un risultato scadente, lo sapremo solo noi. Cantiamo quello che ci va. Immalinconiamoci con i cantautori. Ripensiamo senza scrupoli agli amori perduti. Intristiamoci con i canti popolari della terra in cui abbiamo radici.

O cantiamo l’allegria. Se ci va di cantare l’allegria.

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