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Attualità

GIGANTI

FABIO GANDINI - 13/10/2023

ettore-mo«Il giornalismo è una vocazione. Ma è anche un lavoro artigianale: devi imparare a farlo come si impara a piallare o a fare i mobili».

È morto Ettore Mo, un gigante di classe ed esperienza per tutti coloro che si sono concessi il privilegio di abbeverarsi dalle sue cronache e per quei cinni che – prima di farlo – il lavoro della penna e dei taccuini lo hanno sognato.

Chi scrive probabilmente lo ha sognato a lungo: mamma e papà mi hanno sempre raccontato che una delle prime parole spiccicate dal loro pargolo, durante una vacanza a Canazei, fosse stata “giornale”, storpiata in un cacofonico “nonale”. Papà, d’altronde, è sempre stato un “corrierista” e anche in quelle mattine di villeggiatura l’appuntamento con l’edicola era sacro: nel salto generazionale, tale aura non sarebbe andata persa.

Leggere il Corriere, negli anni, ha significato incontrare autentici fuoriclasse. Lungo l’elenco, popolato il Pantheon: l’asciutto ma elegante stile di Enzo Biagi, le interviste pepate di Claudio Sabelli Fioretti, l’ironia piena di concetto di Gian Antonio Stella, la sensibilità di Massimo Gramellini, la politica raccontata da Aldo Cazzullo, le cronache del “mio” Milan di Alberto Costa…

Mo era fra questi, forse anche sopra questi. Perché al ragazzino che sotto le antologie di greco e latino nascondeva le pagine del giornale, da sbirciare ogni tanto senza essere visto, avrebbe fatto scoprire i reportage, i racconti da luoghi lontani, spesso anche martoriati dalla guerra. Una folgorazione capace di far germogliare il desiderio di essere egli stesso, un giorno, il tramite tra un fatto e la gente grazie alla propria scrittura: un potere enorme, una responsabilità ancora più grande, un’adrenalina capace di riempirti le giornate e lasciarti sazio.

Gli articoli e poi i libri: con Mo si viaggiava in Afghanistan, tra le rovine della Storia; oppure nei Balcani, dove la Storia si stava sgretolando per essere ricomposta da capo. «Non ho mai scritto un libro, in realtà…» si schermiva lui, ammettendo che i suoi volumi erano “solo” una raccolta dei suoi migliori brani messa insieme dagli editori. Eppure, che letteratura… Lungo i grandi fiumi dell’Asia o sui treni più sgangherati della Terra, come quello che attraversava il Sahara portando, ultimi tra gli ultimi, i minatori alle miniere di ferro di Zouérate in Mauritania. Su quei convogli c’erano gli operai e c’era lui, il cronista. Un grande insegnamento: per fare bene il giornalista bisogna esserci. E lui non mancava l’appuntamento, come non lo mancava Tiziano Terzani, un altro gigante nelle cui righe mi sono perso, poi ricostruito, infine deciso.

A far che cosa? A seguire quel sogno antico e mai sopito. «Io anche da giovane volevo scrivere, fare il giornalista: leggendo i ragazzi della via Pal non volevo diventare il soldato Nemecsek che muore… No, volevo essere uno che scrive». Deciso a essere uno che scrive, a fare questo lavoro così particolare, bistrattato, unico, passionale, difficile…

Lo sosteneva anche Mo: «Mi sono sempre sentito inadeguato: la pagina bianca davanti è sempre stata un martirio». Eppure, a poco a poco, ogni volta, il pensiero lentamente inizia a fluire, guida le mani sui tasti (una volta la penna), diventa un fiume vorticoso che si fa lettera, poi parola, poi frase, infine pezzo.

E a te sembra un piccolo miracolo di cui andare orgoglioso. Perché in questo miracolo c’è la vita che hai scelto.

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