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Spettacoli

HOLDEN IL PRIGIONIERO

MANIGLIO BOTTI - 23/11/2012

William Holden fugge da “Stalag 17”

Tra gli attori americani, e forse in un certo tipo di America hollywoodiana, a un tratto della carriera William Holden fu considerato un prototipo: bello, elegante, sportivo, ricco; e anche pervaso – almeno nella vita privata e quindi in contrasto con le certezze e il distacco che manifestava sugli schermi – da una malinconica fragilità che cercava di affogare nell’alcol, ma nel modo meno rumoroso possibile. Quando nel 1954 fu premiato con l’Oscar come miglior attore protagonista per la sua interpretazione nel film di Billy Wilder “Stalag 17 – L’inferno dei vivi” aveva trentasei anni, da tredici era sposato con Brenda Marshall ed era padre di due figli, Peter e Scott, oltre a Virginia, figlia di primo letto di Brenda.

Furono l’Oscar e il regista Billy Wilder a decretare il suo successo fuori da ogni dubbio. Fino ad allora William Holden – al secolo William Franklin Beedle, il padre industriale chimico, la madre insegnante – si era arrabattato, gironzolando tra le Major, ma senza mai sfondare davvero. Si dice anzi che Wilder, che poi se lo vide scritturato nel 1950 per un film memorabile – “Viale del tramonto” (Sunset Boulevard) con Gloria Swanson e Erich von Stroheim – all’inizio non ne volesse sapere di lui (per quanto il giovane attore fosse già stato arruolato in una ventina di film), preferendogli per quel ruolo altri nomi: Monty Clift o Marlon Brando. Con Wilder, invece, Holden si affermò divo: grazie a “Stalag 17”, girato nel 1953, come detto, arrivò all’Oscar; l’anno dopo, insieme con Humphrey Bogart e Audrey Hepburn, e sempre per la firma di Wilder, fu coprotagonista in “Sabrina”, un altro film da segnare con il gessetto bianco nella storia di Hollywood. Proprio in quegli anni i press-agent, nonostante fosse da tempo felicemente sposato e padre, gli attribuirono un flirt con la Hepburn. Ma Holden, che in gioventù era stato un apprezzato (dalle donne) scavezzacollo rimase nel suo cuore sempre legato a Brenda e alla sua famiglia, forse per pudore o per pigrizia, e non volle più risposarsi, nemmeno quando il suo matrimonio era ufficialmente naufragato e Holden aveva come compagna la bellissima attrice e modella Capucine.

È singolare che i due film che, più di altri, ne consacrarono il successo vedano Holden nei panni di un prigioniero di guerra, un prigioniero originale e a suo modo, un po’ cinico, un po’ distaccato, ma che non disdegna infine il blitz e l’atto di eroismo: ricordiamo ancora il John Sefton di “Stalag 17” ma soprattutto il prigioniero americano Shears di “Il ponte sul fiume Kwai” (The bridge on the river Kwai, 1957), di David Lean. Con questo film, per altro, un lungimirante e accorto Holden alzò di molto il suo conto in banca, quando pretese dal produttore Sam Spiegel, oltre a un compenso fisso non stratosferico, una percentuale sugli incassi. Il “Ponte sul fiume Kwai” dal 1957 al 1980 incassò circa trenta milioni di dollari, e la percentuale di Holden – in quel caso e in altri produttore di sé stesso – salì fino a più di tre milioni, cosa che lo fece divenire ricchissimo, tanto da indurlo a trasmigrare – in Svizzera, a Hong Kong, in Kenia – per non devolvere gran parte dei suoi guadagni al fisco.

La guerra vera, il suo contributo all’America, il soldato Beedle-Holden l’aveva fatta nei parà, ma nelle retrovie, sebbene lui avesse più volte brigato per andare in prima linea. Se non altro per non essere da meno rispetto ai suoi due fratelli minori Robert, caduto nel 1944 mentre combatteva nel Pacifico, e Richard che era stato inviato in Europa. Ma anche per un senso della tradizione e della patria (si dice che la sua famiglia, attraverso il ramo materno, discendesse addirittura dal generale George Washington, primo presidente degli Stati Uniti).

L’alcol, per lungo tempo ad annate altalenanti suo compagno di viaggio, ne inficiò talvolta le prestazioni professionali. A Hollywood tutti sapevano del problema di Holden. Anche se David Niven, che l’ebbe come amico e compagno di lavoro in “James Bond 007 – Casino Royale”, nel 1966, disse che pur vedendolo bere più di ogni altro, in effetti non l’aveva mai visto ubriaco. Il “compagno silenzioso”, tuttavia, fu probabilmente l’origine, proprio alla metà degli anni Sessanta, in Italia, di un tragico incidente della strada. L’uomo che era in auto con Holden morì. L’episodio rimase come una macchia indelebile e l’attore non riuscì mai a far rimarginare, nell’animo, quella ferita.

Ancora l’alcol – è possibile – fu la causa della sua morte, che avvenne in un residence di Santa Monica, nel novembre del 1981. William Holden si era recato in California forse per affari, solo. Fu trovato morto in casa. Si ipotizzò una sua caduta, e cadendo per il precario equilibrio aveva battuto il capo contro lo spigolo di un mobile. In quei giorni non aveva cercato nessuno. Aveva sessantatre anni.

La sua morte fu definita misteriosa. Una fine da sconosciuti e senza gloria, per certi versi da collegare in qualche modo alla storia o al carattere di due personaggi crepuscolari di cui era stato interprete: il rapinatore Pike di “Il mucchio selvaggio”, nel 1969, di Peckinpah, o il giornalista televisivo Max Schumacher del film “Quinto potere”, nel 1976, di Sidney Lumet. Lui che era stato il più bello, il più bravo, il più ricco.

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