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Diario

IL PAZIENTE MIO FRATELLO

CLAUDIO PASQUALI - 07/12/2012

Bello, affascinante, entusiasmane; deprimente, pesante, deludente. Non sono contradditorie queste definizioni vissute e sofferte in tanti anni di professione con al centro sempre il paziente, persona conosciuta e amata come fratello, dopo oltre trentacinque anni di attività di medico di famiglia: una “mission impossible”.

Non sono contradditorie perché oltre ad aspetti prevalentemente positivi sono emersi spesso momenti di stanchezza per il carico di lavoro, deprimenti per l’insuccesso della medicina ancora in gran parte delle malattie e pesanti per il fardello scaricato dai pazienti sulle mie spalle.

All’inizio della mia attività mi venni a trovare subito smarrito e in preda al panico in quanto venni chiamato improvvisamente a Laveno nel ‘77 per la sostituzione di un medico di famiglia colpito di infarto con circa tremila pazienti in carico e che poi non poté più riprendere il lavoro per l’invalidità permanente conseguente. Quindi l’impatto è stato violento, quasi traumatico per questa onda d’urto di pazienti impressionante, essendo io alle prime esperienze di pratica medica sul campo, dopo avere lavorato per un certo periodo nel reparto di medicina dell’Ospedale del Ponte. Tante e le più varie le necessità che mai avrei immaginato di dover soddisfare e a cui rispondere sempre prontamente.

Le richieste di visite arrivavano a tutte le ore anche il sabato, la domenica e di notte, perché eravamo in servizio sempre reperibili, ventiquattr’ore su ventiquattro. Mi viene da sorridere ora che il ministro della salute proclama come rivoluzionaria la riforma che prevede le visite del medico di famiglia ventiquattr’ore su ventiquattro con turni, senza poi sapere che noi gestivamo già quaranta anni fa un gran numero di pazienti con tale reperibilità, senza tanti medici in rete, di gruppo e turni. Prevedo già come andrà a finire: che ciascun paziente si rivolgerà al proprio medico di famiglia, ritenendo inutili i turni delle ventiquattro ore di reperibilità per farsi visitare da un medico sconosciuto.

Il rapporto con il medico di famiglia come lo sto vivendo è insostituibile e unico, fondamentale pilastro nella gestione della medicina sul territorio e fondamentale sostegno sociale e sanitario alla famiglia. Questo rapporto ora costantemente viene minacciato, perché rappresenta un esercizio anche di relativo potere derivato da un patrimonio di fiducia incommensurabile e dal fatto di gestire con i soldi della comunità al meglio la salute del cittadino a misura d’uomo e a misura della sua famiglia, nucleo fondante della società, riconosciuto come tale in tutte le epoche storiche, ma oggi messo in discussione e demolito subdolamente con la pretesa del controllo informatico e burocratico ricetta per ricetta, controllo della nostra prescrizione e controllo della spesa farmaceutica.

Il ruolo del medico di famiglia è quello che si cerca di distruggere, mascherando il tutto con promesse ingannevoli di migliorare il servizio sanitario. Le visite domiciliari ventiquattro ore su ventiquattro sono come lo specchietto per le allodole, ma minano irrimediabilmente il ruolo e la figura unica che rappresenta ancora oggi il medico di famiglia punto e centro di riferimento per i bisogni primari di salute sul territorio.

Questa politica considera il medico di famiglia – come la famiglia – qualcosa da demolire ed è un disegno perverso e ingannevole con conseguenze nefaste sulle macerie ormai di famiglie distrutte e sfasciate sempre in maggior numero e di medici di famiglia in “burn off” per carichi burocratici sempre più gravosi con blocco delle convenzioni e pertanto non retribuiti, a causa della crisi con la quale conviveremo sino alla morte, essendo il nostro debito insolvibile; crisi che però non tocca gli sprechi e il consumismo diagnostico e terapeutico dei centri privati convenzionati, e anche talvolta degli ospedali.

Ritorno alla mia esperienza diretta, scusandomi dello sfogo e della divagazione. Tutti i pazienti erano contenti di noi, medici disponibili, perché poi altri – come oggi – si rendevano irreperibili per scansare responsabilità, oltretutto con la medesima retribuzione. Quindi dall’inizio della mia attività il rapporto con il paziente mi è costato un lavoro straordinario e molto faticoso, cercando di fare fronte alle richieste più immediate per poi rimandare la conoscenza della storia clinica della persona in un secondo momento. Ho cercato di impostare il rapporto con il paziente nell’imparare ad ascoltare, facendo tacere le mie preoccupazioni personali e familiari, cioè liberando dalla mente tutto ciò che avrebbe potuto ostacolare l’ascolto del problema del paziente, concentrandomi con la mente completamente su di lui.

Già dall’82 ero uno dei primi medici informatizzati con gli antidiluviani 8686 che usavano un programma in Dos per la gestione della cartella clinica e la prescrizione dei farmaci e di esami. Ricordo che allora mi costarono con le stampanti circa sedici milioni e fu uno dei primi leasing per strumentazioni mediche che poi arrivarono sino all’ecografo top di gamma dell’ultima generazione quando acquisii competenza specifiche nell’esercizio dell’ecografia in medicina generale.

 Già allora il lavoro così organizzato era estremamente più facile e meno faticoso soprattutto per le ricette ripetitive degli ammalati cronici di quanto lo fosse per chi scriveva tutto a mano su cartella clinica cartacea e poi su ricetta. Inoltre era molto gratificante poter fare una diagnosi immediata con un minilaboratorio a chimica secca per i principali esami e con l’ecografia e l’elettrocardiografo.

Consideravo con uguaglianza tutti i pazienti come mie fratelli, ricchi e poveri, straccioni e ben vestiti, lavati e profumati, sporchi e puzzolenti, con cui condividere e infondere la speranza e la fiducia in qualsiasi situazione negativa presentasse la vita col manifestarsi di una malattia. Dall’infarto all’influenza.

Con la riforma sanitaria dell’80 passai da tremila assistiti a milleottocento compresi anche i bambini, quindi svolgevo anche la funzione di pediatra, non senza difficoltà. Quest’esperienza mi è rimasta indimenticabile per l’amore grande e la gioia che provavo nel curare i bambini ammalati e poi mi sentivo a pieno titolo medico di famiglia che comprendeva la cura dei genitori, nonni, figli e nipoti, così sapevo già dove intervenire per prevenire i rischi di malattie ereditarie. Mentre ora anche i pazienti che ho mi sono sottratti dal centro diabetici, dal centro dell’ipertensione, dal centro della menopausa e altri. Insomma da tutti gli specialisti che pur di lavorare invadono dall’ospedale il nostro campo di lavoro sul territorio. Ma io custodisco gelosamente i miei pazienti e non li lascio facilmente preda di… lupi rapaci. Poi anche con l’istituzione della guardia medica e con l’avvento del cellulare mantenni sempre la reperibilità alle visite notturne e festive, quando potevo. Allora non esistevano cellulari e il riferimento era il bar del Ferruccio in piazza a Mombello cui i pazienti erano abituati a telefonare per richieste urgenti.

Mi ricordo che le richieste di visite domiciliari erano imbucate nelle cassette delle lettere davanti agli ambulatori di Laveno e di Mombello entro le otto del mattino e normalmente venivano soddisfatte in giornata. Ogni mattina era una sorpresa diversa a volte erano vuote a volte con dieci, quindici richieste, per cui non sapevo bene da che parte cominciare, se non dalla più lontana seguendo il percorso da Mombello sino ad arrivare Laveno fin su a Monteggia.

Il massimo di visite domiciliari lo raggiunsi in un’epidemia influenzale un lunedì di febbraio del 1978 con diciassette chiamate, oltre alle otto, nove ore di ambulatori ove si accalcavano (allora non si vistava per appuntamento) come minimo sempre una trentina di persone con una grande confusione generata da ciascuno che rivendicava di essere arrivato per primo. In quell’epoca il ricorso alle visite domiciliari era molto più frequente di ora perché i pazienti non si recavano al pronto soccorso se non dietro mia indicazione specifica.

Devo ammettere che quello fu il periodo più bello, anche se il più faticoso e intenso, della mia professione medica di cui mantengo dei bellissimi ricordi. Anche perché, in seguito, dotandomi di una segretaria e di un’infermiera riuscivo a gestire senza troppa fatica gli ambulatori a misura di paziente, dedicando a ciascuno dal quarto d’ora alla mezzora secondo la gravità del caso.

 Fui aiutato molto nel gestire il rapporto con i pazienti dalla frequentazione volontaria di corsi di counseling a mie spese (il termine counseling indica l’attività professionale del medico che tende a orientare, sostenere e sviluppare le potenzialità del paziente, promuovendone atteggiamenti attivi, propositivi e stimolando le capacità di scelta).

Ho raggiunto così la capacità di sapermi rapportare col paziente nel modo migliore appunto attraverso uno specifico percorso, che coinvolge il paziente nell’esprimere la storia della sua malattia, dei sintomi e attraverso una accurata visita formulare delle risposte che siano poi condivise come giuste, esami e accertamenti o terapie secondo il caso specifico, ma sempre condiviso e mai imposto autoritariamente o con presunzione di essere il depositario della verità, ma aperto anche al confronto con specialisti competenti, ove capivo di non poter arrivare per incompetenza specifica, non ritenendomi depositario del sapere medico che oltretutto si rinnova attraverso la ricerca e lo sviluppo di nuove tecnologie e l’entrata in commercio di farmaci sempre più specifici e numerosi. Ho voluto però portarmi oltre e ho dovuto, perché il tempo ha fatto maturare i nostri rapporti tutti a nostro favore, trasformare il rapporto medico professionale-paziente in rapporto di amicizia e reciproca stima, dove la comunicazione è molto facilitata per la fiducia reciproca guadagnata.

Inoltre esprimevo sempre la mia gratificazione che mi derivava dal curare i pazienti e loro sentivano di non essere a me di peso, a volte approfittando anche un po’ della mia pazienza e buon carattere, tanto da non ricordare di aver mai ricusato alcun paziente e di essermi giustamente alterato per l’inganno di pazienti che per ottenere dei giorni di malattia mascheravano dei sintomi inesistenti che non riscontravo durante la visita.

Quando percepisco che un paziente si fida di me completamente, allora mi diventa tutto più facile ed il paziente percepisce la mia sicurezza come garanzia della sua serenità e della bontà della cura proposta, guarendo anche più rapidamente per la somma di effetto placebo o suggestione. Mi delega la sua salute, rendendomi responsabile delle cure a volte con timore anche di sbagliare.

Questa mattina mi è capitato un paziente, un caro amico, che è pieno di metastasi da un tumore di cui non sappiamo ancora l’origine. Francamente questo mio amico mi ha comunicato, avendo anche un certo livello di cultura, che sapeva che cosa significava per lui quella diagnosi, un’attesa di vita molto breve e mi pregava di non effettuare accanimento terapeutico e concedergli comunque di morire tranquillo e sereno. Gli ho promesso di mantenere fede ai suoi desideri e confermato la mia solidarietà e la mia competenza nelle cure palliative coadiuvato da un carissimo collega anestesista. Attraverso la sua collaborazione arriviamo a mantenere in piedi nella maggior parte dei casi il paziente in buona salute quasi sino all’ultimo, senza avere o provare dolore fisico, mentre certamente non esiste terapia per il dolore che può suscitare la prospettiva di lasciare questo mondo, la moglie e i figli e i parenti e gli amici tutti.

Per questo tipo di sofferenza morale non credo che esista terapia, anche se poi nella fase di sedazione terminale, il paziente perde coscienza di sé e del mondo circostante entrando in agonia senza neanche rendersene conto e senza essere cosciente della propria morte.

Ecco, l’aspetto deludente del rapporto con il paziente è generato dalla nostra impotenza relativamente alle malattie mortali, del nostro non sapere medico davanti a tante malattie inguaribili ma comunque curabili. Allora il rapporto diventa pesante perché inconsapevolmente ci si fa carico dei problemi e delle sofferenze vissute dai pazienti sapendo di non avere un’uscita di sicurezza.

A volte il rapporto diventa anche deprimente per la mancanza di collaborazione e fiducia del paziente, davanti alla mancata riconoscenza che porta a scegliere magari un altro collega dopo che tu hai fatto tutto il possibile e l’impossibile per risolvere i suoi problemi. Ma non si svolge l’attività di medico per la riconoscenza dei pazienti, ma per il sollievo della loro sofferenza e la loro guarigione. In questo mi sono di grande conforto la fede e i doni dello Spirito santo, tanto importanti per l’esercizio della mia professione così complessa, che sempre invoco nelle mie preghiere del mattino e della sera.

Essi sono: scienza, sapienza, intelletto, pietà, timor di Dio, forza e consiglio. Avverto come una Grazia di Stato l’aiuto del Signore che mi dona per evitare errori e svolgere secondo scienza e coscienza la mia professione.

Per il medico credente è sempre possibile rivolgersi a Signore affidando a lui la soluzione di situazioni riconosciute senza via di uscita.

Così posso concludere con un bilancio francamente positivo del rapporto con i miei pazienti anche se riconosco che spesso non era come lo avrei desiderato o per stanchezza o per stress. Di questo chiedo scusa a tutti quanti possano essere stati non trattati con le medesima attenzione e diligenza anche attraverso questi miei ricordi in questo articolo di diario.

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