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Opinioni

È SEMPRE UN 8 SETTEMBRE

VINCENZO CIARAFFA - 19/04/2013

Lo scorso febbraio, nel titolare un articolo sui due marò del reggimento San Marco trattenuti illegalmente in India, pubblicato poi su di un giornale specializzato in problematiche militari, prendemmo in prestito dal bandito Salvatore Giuliano una frase dedicata ai carabinieri e che egli aveva inciso sul calcio di legno del suo mitra: «Per voi vedo malo e oscuro cammino».

Qualche giorno dopo, invece, Massimiliano Latorre e Salvatore Girone ritornarono in Italia grazie a una specie di licenza elettorale concessagli, con regale magnanimità, dell’India dove erano formalmente (e illegalmente)  detenuti. Ebbene, i due sottufficiali erano appena scesi dall’aereo militare messo a disposizione dallo Stato maggiore difesa, nell’inedita funzione di noleggiatore di aerotaxi, che arrivò il ruggito del coniglio dal portavoce da quel Ministero degli esteri che – dopo avere accettato piuttosto supinamente l’illegale detenzione dei due militari – informò di avere rinnegato gli impegni assunti in proposito con l’India: «L’Italia ha informato il governo indiano che, stante la formale instaurazione di una controversia internazionale tra due Stati, i fucilieri di marina […] non faranno rientro in India alla scadenza del permesso loro concesso». Qualcosa del genere avvenne l’8 settembre del 1943 – questa data per un vecchio soldato come chi scrive è sempre stata un’ossessione – quando il capo del governo succeduto a Mussolini, il generale Pietro Badoglio, passò alla storia del Novecento per avere tradito un po’ tutti, come dire il re d’Italia, gli alleati tedeschi, gli italiani e quelle forze armate in cui aveva militato per sessant’anni.  In quella circostanza gli anglo-americani coniarono un neologismo che adoperano ancora quando vogliono indicare il tradimento e la doppiezza: «To badogliate».

Al rientro dei marò che, non dimentichiamolo, agivano sotto l’egida dell’Onu, alcuni nostri quotidiani titolarono che il governo aveva finalmente tirato fuori l’orgoglio, altri invece che aveva soltanto, e tardivamente, tirato fuori gli attributi. Quali che fossero state le cose tirate fuori dal governo, sembrava proprio che le fosche previsioni dello scrivente fossero state eccessivamente pessimistiche e che il futuro dei nostri due militari sequestrati non si prospettasse per niente come un «Malo e oscuro cammino». E ciò con grande gioia. Insomma per una volta essere smentiti ci faceva sentir bene, anche se disgustavano le “badogliate” con le quali il nostro governo stava affrontando quell’ingarbugliata contingenza con una nazione che, diciamolo pure, si è trovato inopinatamente tra le mani un caso molto scabroso senza desiderarlo e soltanto per la fessaggine della nostra diplomazia e del ministro della Difesa, un ammiraglio. L’India, infatti, non sapeva chi avesse realmente sparato sui suoi pescatori il 15 febbraio del 2012 e non si aspettava di certo che qualcuno fosse così stupido da andarsi a buttare nelle sue braccia per un accadimento, purtroppo, frequente da quelle parti e che, fino a quel momento, non aveva mai innescato una crisi tra due Stati.

Basti pensare che nel tratto di mare dove trovarono la morte i due occupanti del peschereccio, oltre alla petroliera “Enrica Lexie” sulla quale vigilavano i due marò, navigavano altre tre navi cui le autorità costiere indiane, come da prassi, chiesero via radio se avessero per caso sparato su qualche natante. Alla richiesta radio non rispose nessuna delle navi che preferirono, invece, aumentare la velocità e addentrarsi ancora di più in acque internazionali eccetto una: provate a indovinare quale?

Dopo tanta sprovvedutezza e una volta fatta anche la voce grossa, l’Italia non doveva calarsi, poi, le brache neppure di fronte alla minaccia del governo indiano di “sequestrare” il nostro ambasciatore a New Delhi se non fossero rientrati, i marò. Anzi, avrebbe dovuto auspicarla una tal evenienza in modo da far diventare quello italo-indiano un caso internazionale.

Purtroppo, la nostra diplomazia fino ad oggi è riuscita soltanto a dare concretezza a un salace detto napoletano che è abbastanza noto anche in Lombardia: «E’ gghiuta a p… man’è criature».

Non è stato per caso che prima abbiamo tirato in ballo l’8 settembre del 1943 giacché nei giorni che precedettero quel tragico mese di settanta anni fa, l’Italia riuscì nella titanica impresa di ritrovarsi per due mesi in guerra con ben otto nazioni contemporaneamente. Quasi lo stesso risultato di oggi. Siamo riusciti, infatti, a fare imbestialire gli indiani – che l’anno scorso si sarebbero accontentati del “rammarico ufficiale” del nostro governo – a non saper coinvolgere la diplomazia dell’Unione europea e dell’ONU, a lasciare indifferente gli USA ai quali potevamo dire qualche “parolina” sulla nostra partecipazione alla guerra in Afghanistan.

Insomma, come sempre, abbiamo interpretato al meglio il ruolo dei classici «cornuti e mazziati» nel senso che, oltre ad avere subito un palese torto a norma di diritto internazionale, ci abbiamo saputo costruire sopra anche una figura di merda planetaria.

Mentre scriviamo, peraltro, Massimiliano Latorre e Salvatore Girone, sono sballottati tra l’ambasciata italiana a New Delhi e un commissariato di polizia indiano in attesa di essere processati – non si sa quando – da un Tribunale speciale. Oltre al fatto che soltanto il termine Tribunale speciale mette i brividi, perché ricorda i famigerati tribunali con lo stesso nome del periodo fascista, temiamo che quello dei due marò non sarà un processo di garanzia stante la bislacca fase istruttoria rassomigliante, in verità, più ai procedimenti che si celebravano nel Regno delle Due Sicilie del periodo borbonico che non in quella di uno Stato passabilmente moderno.

Dopo la spacconata del mese scorso e dopo avere rispedito in fretta e furia i poveri marò in India, la Farnesina fece anche sapere che il nostro governo «Ha chiesto e ottenuto dalle autorità indiane l’assicurazione scritta riguardo al trattamento per i due fucilieri e alla tutela dei loro diritti e che, inoltre, il governo indiano avrebbe garantito che per i nostri due marò non ci sarà la pena di morte». Come dire che potevamo stare tranquilli perché a quei due ragazzi sarebbe stato inflitto, al massimo, “soltanto” un ergastolo!  Che Stato affidabile può essere quello che dichiara in mondovisione di poter condizionare l’opera della propria magistratura e, soprattutto, che quoziente medio d’intelligenza possiede un governo che ci crede pure?

Qualche giorno dopo, infatti, arrivò puntuale la precisazione del ministro della giustizia indiano il quale fece sapere che il comunicato del Ministero degli esteri italiano era falso e che, pertanto, la pena di morte per i nostri marinai non dovesse escludersi a priori. Insomma ai pesci in faccia si aggiunse l’accusa al Ministro degli esteri di essere un bugiardo!

Ci mancava soltanto che, mentre i due marò volavano alla volta dell’India, Mario Monti – che per nostra disgrazia sarà, poi, rimesso in sella ancora un po’ da Giorgio Napolitano – facesse conoscerci il suo pensiero attraverso il sottosegretario al Ministero degli esteri, Staffan De Mistura: «La parola data da italiani è sacra».

Se il facondo sottosegretario avesse meditato sulla storia del suo Paese, si sarebbe accorto che quella frase, oltre a non tener  minimamente conto della realtà di fatti che erano sotto gli occhi del mondo intero, era stata pure scopiazzata da Vittorio Emanuele II. E, chissà, magari di meditazione in meditazione, si sarebbe potuto anche lasciar prendere dal timore che Massimiliano e Salvatore avrebbero potuto anche non far più ritorno alle loro famiglie e al loro Paese.

Bisogna ammettere, però, che colpiva parecchio la rodomontata del sottosegretario: su che cosa l’aveva fondata? Qualche malpensante sostenne che, dopo l’intervento della magistratura, i due marò erano diventati la garanzia fideiussoria dell’andata a buon fine del nebuloso affaire che vede coinvolti i vertici di Finmeccanica (azienda a partecipazione statale…) e quelli delle forze armate indiane in alcuni “maneggi mazzettari” a proposito di forniture militari. Giusto per complicare vieppiù la situazione, dopo avere condiviso la decisione di rispedire i due marò in India come pacchi postali, il Ministro degli esteri Giulio Terzi si dimise, come dichiarò Napolitano, in modo irrituale: «Allons enfantes de la Patrie» che di questo passo riusciremo a farci dichiarare guerra anche dalla gendarmeria vaticana.

A questo punto vorremmo poter reiterare una domanda al capo di Stato maggiore della difesa, che peraltro è (anche lui!) un marinaio: «Ammiraglio, quand’è che, in segno di protesta, si dimetterà anche lei che, fino a oggi, si è mossa senza costrutto in quei grigi palazzi romani di via XX Settembre mentre si giocava una strana partita sulla pelle dei suoi uomini? Molti di noi si sono già dimessi». Da italiani.

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