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Minima Dialectalia

MANGIARE LA FOGLIA, ANZI… IL CAPPONE

BAJ - 17/05/2013

Una delle antiche caratteristiche della vita dei paesi (e anche Varese era un paese!), era che tutti sapevano tutto di tutti. Chi cercava privacy e riservatezza la trovava in città. Meglio se metropoli. Ma il gusto umano, troppo umano, di farsi gli affari degli altri dev’essere ben radicato nel DNA della specie a giudicare da quante bocche sfama il pettegolezzo, attraverso TV, rotocalchi, Internet eccetera.

Comunque, anche se in paese tutti sapevano tutto di tutti, si cercava comunque di mantenere qualche spazio privato e di difendersi un po’ dalla curiosità degli occhiuti vicini. Cosa non facile nelle case d’un tempo che quasi mai si chiudevano a chiave e quasi sempre si potevano frequentare senza formalità particolari. Tanto più che ancora non era iniziata la moda delle case unifamiliari con giardinetto lillipuziano supercintato e magari difeso da nevrotico pitbull. Quindi le case erano per lo più quelle classiche lombarde di una volta: addossate le une alle altre o addirittura le une dentro le altre.

Come succedeva nelle antiche e belle case di cortile o di ringhiera ch’erano quasi paese nel paese, dato che sullo stesso cortile e lungo la stessa ringhiera o la stessa lòbia (magari coi cosiddetti “servizi” in comune), si affacciavano più famiglie e qualche volta in cortile si aprivano laboratori d’artigiani della pietra o del legno, o avevano il retro le botteghe di bagatt o farée o selée o prestinée che davano sulla strada… Insomma, una volta varcato il portone collettivo, si dovevano ancora attraversare vari gradi di spazio “pubblico” prima di conquistare il proprio spazio “privato”. Che spesso restava sogno vagheggiato, dato che molti di privato avevano solo il proprio letto, poiché dovevano dividere la camera con altri fratelli o sorelle o nonni o zii o altro.

Le famiglie che vivevano in questa sostanziale promiscuità, difficilmente potevano tener nascosto qualche cosa. Per questo risultava patetico il tentativo della Natalina, vedova con tre figli e quindi in condizioni economiche pessime, che pure in occasione delle feste grandi come Natale e Pasqua, imponeva ai suoi bambini di non uscire a giocare in cortile subito dopo il pranzo di mezzogiorno. “Aspettate a uscire – diceva – così i vicini penseranno che avete fatto un lungo banchetto, perché è meglio fare invidia che pietà”. I tre bambini, però, pur restando in casa in quelle occasioni più del solito, non potevano evitare di confondersi e di far marrone, se interrogati sulla consistenza del banchetto natalizio e/o pasquale. “Ém mangiá ul capún”, rispondevano, sostenendo però d’aver mangiato una coscia ciascuno.

Frasi come “Ém mangiá ul capún”, “Abbiamo mangiato il cappone”, o anche la domanda ironica “L’éra bun ul capún?” erano spesso usate un tempo nella famiglia del Baj come ironico commento a quelle situazioni in cui al posto del lauto banchetto sognato, si finiva col patir la fame. Ma il gergo serviva anche a comunicare consapevolezza di disvelamento di un comportamento menzognero. Cosa che in italiano potrebbe suonare “io so che tu sai che io so”. Cosa che in napoletano si risolve più coloritamente con “accà nisciuno è fesso”. Così quando il Baj ragazzo rientrava tardi a cena per essere stato da qualche parte a limonare e si giustificava raccontando di contrattempi assai improbabili, l’autorità familiare di turno gli dava l’avviso d’essere entrato in terreno assai minato con la domanda “E l’éra bun ul capún?

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