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Minima Dialectalia

LITI CREATIVE

BAJ - 14/06/2013

Chissà perché (ma sicuramente c’è un perché!) ieri come oggi uno dei momenti della vita in cui si esercita in sommo grado la creatività è quello della lite. Sarà l’adrenalina che va in circolo, ma sta di fatto che quando si litiga, i ragionamenti diventano articolati, l’attenzione si fa più acuta nell’individuare i punti deboli di chi ci sta di fronte, si trovano espressioni di rara efficacia per colpire il nemico nel suo punto più debole. Anche la memoria si acuisce e va a ripescare in un passato prossimo o remoto vecchie e nuove ingiurie, vecchi e nuovi motivi di contrasto, antiche ingiustizie subite, su su per le generazioni fin dove arriva la memoria diretta o anche quella tramandata.

Quando nelle case di una volta si litigava di brutto, sonoramente, con urla che rimbalzavano da un lato all’altro del cortile o da una lobia o da una ringhiera all’altra, con insulti sanguinosi e immaginifici, il testimone neutrale – non belligerante – poteva ben sorprendersi ad apprezzare la creatività delle espressioni, piuttosto che a provare sconcerto per la gravità delle cose dette.

Ad esempio, ricorda il Baj che durante queste liti venne affibbiato ad un vicino, cocciuto, ottuso e violento la sua parte, l’appellativo di cò da bò.

Chiamare un umano “testa di bue” può sembrare cosa decisamente umoristica. Ma il Baj sostiene che, data lo conformazione della testa del soggetto, che avrebbe fatto la felicità di Lombroso, altra definizione non sarebbe stata più precisa. Analogamente, la moglie del detto cò da bò, non poteva che avere un cò da scimas, ovvero, per la legge della complementarietà dei contrari, testa piccola e presumibilmente di scarso contenuto, ma fastidiosa come quella di una cimice.

Fortunatamente, nella maggior parte dei casi, le liti finivano col ricomporsi, col tempo. Ma a volte c’erano motivi per affrettare la riappacificazione e quindi ci si rivolgeva ad un paciere indiscutibilmente autorevole e super partes.

Un ruolo del genere si dice lo svolgesse il bisnonno del Baj, che nella piccola comunità era voce ascoltata. Dai racconti tramandati, pare che usasse una tecnica molto efficace per dirimere le discussioni. Come giudice conciliatore, convocava le parti in causa e lasciava che ognuno dicesse le proprie ragioni. Ma fin dall’inizio si preoccupava di eliminare dai discorsi quell’aggressività, quel fiele, quei veleni che avrebbero impedito la riappacificazione e condotto anzi ad un incancrenirsi dei rapporti. Perciò, se uno accennava a colorire il suo dire con apprezzamenti ingiuriosi e con toni troppo esasperati, subito lo interrompeva dicendogli sdegnato: – Quést chí l’è n parlá da tacá lit! -, volendo significare che le parole usate non avrebbero portato ad altro che a nuovi motivi di lite. Ciò detto, fingeva di chiudere la riunione, e se ne andava all’osteria. Dove quasi sempre (ma la tradizione dice “sempre”) veniva raggiunto dai contendenti finalmente disposti, magari coll’aiuto di un mezzo di rosso, a parlarsi da persone civili.

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