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Minima Dialectalia

RETORICA DELLA CATTIVERIA

BAJ - 12/07/2013

"cattivo" Giudeo alla VIII cappella del Sacro Monte

È inutile nascondersi dietro un dito: i cattivi fan sempre più notizia dei buoni. E non solo fan più notizia, ma, in genere, eccitano di più la fantasia, alimentano di più l’immaginario, fanno nascere più miti e agiscono più potentemente sul linguaggio. Anche su quello di uso comune e quotidiano.

In dialetto, ad esempio, quando di uno si è detto che è bun cumè l pan, si è detto tutto, anche perché è difficile trovare un paragone migliore per rendere l’idea della bontà, dato che il pane da sempre è simbolo e metafora, come l’aria e l’acqua, di quanto c’è di davvero indispensabile a rendere vivibile la vita.

Sul fronte opposto, invece, la cattiveria ha mille sfumature, diverse a seconda dell’intensità della cattiveria che si vuol descrivere e a seconda delle età della vita. Infatti già di un bambino si può dire che è catív mè n ái quando è pungente e irritante come l’aglio; o si può dire che è catív mè na pèsta, che è una peste, insomma, dilagante senza freni.

Oppure può essere catív mè l maa da véntru, come il mal di pancia insistente e fastidioso, caparbio nel non smettere di fare il contrario di quel che si vorrebbe. O ancora può essere un tòssigh, cioè un veleno, specialmente per le sue richieste continue, indiscrete, che attossicano la giornata.

Crescendo, poi, si può diventare cattivi come i Giüdé da la Madòna dal Munt, cioè come i giudei che martirizzarono Gesù, le cui statue in grandezza naturale movimentano le cappelle del Sacro Monte. E visto che siamo dalle parti delle Sacre Scritture, vale la pena di ricordare che si può anche essere catív mè n caìn, cioè come Caino, primo fulgido esempio di quello che sarebbe poi stata l’umanità.

Chi poi cresceva d’età ma non di statura, poteva rivelarsi catív mè n pevarín: un “peperino”, tanto da confermare la diceria che le persone basse di statura siano spesso se non sempre di pessimo carattere, in quanto destinate, per grandeggiare e primeggiare (o forse solo per farsi ascoltare), a farsi largo a spallate in un mondo di persone più alte e spallute.

Ma poiché la cultura espressa dal dialetto conosce anche lo strumento retorico dell’ironia, ed è oltre tutto uno strumento ben temperato, ecco che di un adulto o meglio di un vecchio cattivo, si può dire con l’ironia che afferma negando: l’è mía catív, ma l scampa tròpp.

Chi si è fatto voler male, non può aspirare all’affetto di parenti e conoscenti, i quali, a lor volta si sentono autorizzati ad auspicare una pronta dipartita dal mondo per chi li ha tanto amareggiati. In genere non si fanno essi stessi parte attiva nell’accelerare tale dipartita, forse perché memori del saggio adagio per cui pertegá i nus, fá via la fiòca, e mazzá la gent, l’è tütt laurá par nient (poiché cade la noce dal ramo motu proprio, e scioglie la neve il sole di primavera, e muore ognuno alla sua ora)… Ma nel protrarsi indefinito dell’attesa di una liberatoria dipartita del cattivo, i conoscenti osano almeno muovere un benevolo appunto all’Onnipotente che, malgrado sia celebrato come Somma Giustizia, consente un transito un po’ troppo durevole ai malvagi in questa valle. Che diventa “di lacrime” non solo, ma certo anche a causa della loro ingombrante presenza.

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