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Attualità

L’ITALIA VISTA DALLO SPAZIO

VINCENZO CIARAFFA - 19/07/2013

Secondo il mito dopo l’incidente “aviatorio” accaduto a Icaro, Dedalo si salvò grazie a un atterraggio di fortuna in Sardegna. In Italia nacque il precursore del volo aereo, Leonardo da Vinci, e come pure sono italiani, o stabilmente in Italia, i due protettori di chi vola o si muove nello spazio: la Madonna di Loreto e San Giuseppe da Copertino. E, in un certo senso, anche il primo uomo a mettere piede sulla luna fu un italiano, uno di quelli che di più pantofolai non esisteva, Ludovico Ariosto, l’autore del poema “Orlando furioso”. Parliamo di un viaggio immaginario, ovviamente, come quello che l’estro di Ariosto fece compiere al Conte Astolfo sulla luna per ritrovarvi il senno perduto di Orlando, il prode paladino di Francia. A differenza di altri italiani che, all’incirca cinquecento anni dopo, se ne andranno in giro per lo spazio a bordo di potenti vettori, Astolfo viaggia sul dorso dell’ippogrifo, un leggendario cavallo alato e, nientepopodimeno che, in compagnia di San Giovanni.

Il simpatico maggiore dell’Aeronautica militare italiana, Luca Parmitano, per andarsene anche lui a passeggio nello spazio ha potuto fruire, invece, di un mezzo di trasporto più comodo dall’ippogrifo ariosteo anche se, quando si è messo ad armeggiare all’esterno della navicella che l’ha portato fino a quattrocento chilometri sopra la testa di madre terra, si è dovuto accontentare della più modesta compagnia dell’astronauta statunitense Chris Cassidy.

Per quel senso di caducità che immaginiamo si provi quando si rimane sospesi nello spazio infinito, prima di uscire dall’ISS (International space station), l’astronauta italiano forse avrà pensato a Dio – la cui presenza è più avvertibile a quelle indicibili altezze – ma ha sicuramente pensato al suo Paese: «Dedico questa prima passeggiata a tutta l’Italia e a tutti gli italiani». Mentre ricordava a se stesso che il maggiore Parmitano ha frequentato il corso dell’Accademia aereonautica di Pozzuoli al cui giuramento di fedeltà alla Patria nel 1999 egli ha assistito assieme ad altri ufficiali di Marina ed Esercito di stanza a Napoli, chi scrive si è lasciato andare a più di una considerazione: «Presi singolarmente siamo capaci di compiere imprese memorabili e non v’è campo dello scibile umano nel quale non ci siamo cimentati con successo».

Qualcuno in passato ci ha enfaticamente, ma oggettivamente, definito un popolo di eroi, di santi, di poeti, di artisti, di colonizzatori, di trasmigratori. Perché, allora, come collettività, per senso civico e di appartenenza ideale siamo quasi il peggio del peggio? Che cosa ci manca per essere intimamente (e sinceramente!) legati ai sani valori della democrazia e della tradizione nazionale come americani, inglesi e francesi?».

Secondo la nostra visione del problema, ci manca lo Stato, anche se qualche lettore ultraliberale penserà che di troppo Stato stiamo morendo. Beh, questo lettore sbaglierebbe perché l’identità nazionale italiana non sta morendo perché v’è troppo Stato ma perché non v’è il popolo italiano.

Per popolo non intendiamo banalmente un numero d’individui viventi sullo stesso territorio e parlanti la medesima lingua ma, piuttosto, cittadini adusi a contrapporsi e/o a misurarsi col sovrano che, nella trasposizione moderna, è un governo eletto.

Di solito. Nel nostro Paese, purtroppo, non è mai esistito un popolo con queste caratteristiche perché la Chiesa – di cui sono figlio pensante e irrequieto – in assenza di un potere laico forte e centralizzante, in duemila anni è riuscita a plasmare individui/credenti tanto emotivi sul piano religioso quanto evanescenti, quasi inesistenti, su quello civile. Quando, però, non esiste un popolo, significa che non esiste neppure la nazione ed è intuitivo che senza nazione non può esistere lo Stato!

Ecco perché non è di questo che sta morendo il nostro disgraziato Paese. E badiamo bene che quel Moloch insaziabile che sta divorando risorse economiche, energie civiche, cultura, entusiasmo e speranze sta allo Stato come uno zombie sta a un vero vivente. Se in Italia non esiste uno Stato degno di tale nome, esisterà almeno una Patria ideale? Purtroppo, temiamo non esista neppure quella perché le caratteristiche affettive e culturali che la connotano sono tracollate sotto il peso di quelle che si potrebbero definire sovrastrutture.

Nel caso italiano – oltre a un sindacato obsoleto e la mancanza di un credibile piano per lo sviluppo – le sovrastrutture più insopportabili sono state le molte conseguenze di un’impreveduta, mal gestita globalizzazione e il dilatarsi dell’Unione Europea, come sostiene non senza un pizzico di acidulo sarcasmo l’economista giapponese Kenichi Ohmae: «Proprio nel momento in cui gli Stati-nazione cominciavano a perdere il loro ruolo di protagonisti sulla scena economica, Bruxelles ha deciso di creare uno Stato sopranazionale». Il che è come dire tra le righe che l’Unione europea è una costruzione forzosa come, da anni, sospettiamo sia anche la sua economia.

Eppure, nonostante questi macigni che gravano sulla nostra residua percezione identitaria, il maggiore Parmitano, all’atto di uscire dalla navicella, ha avuto un pensiero per l’Italia e per gli italiani e siamo disposti a scommettere che egli si è lanciato nell’avventura spaziale in loro nome. Esattamente come fecero Scipione Borghese e Luigi Barzini quando parteciparono al raid Pechino-Parigi a bordo di una traballante vettura d’inizio Novecento; come fece Luigi di Savoia che portò il Tricolore sabaudo sulla cima più alta del Ruwenzori; come fecero Compagnoni e Lacedelli che issarono il Tricolore repubblicano sul K2, la seconda cima più alta della terra. «Roba del passato» potrebbe pensare qualcuno ma era un passato costellato di uomini nerboruti che credevano nel proprio destino e in quello del loro Paese, non certo di fighetti costruiti in laboratorio.

Ciò che sospinge un uomo a compiere imprese al limite estremo delle capacità umane in ogni campo è che egli si sente la punta avanzata di un popolo, di una civiltà o, semplicemente, di una comunità alla quale, evidentemente, è orgoglioso di appartenere. Ed è a questo punto che per la stragrande maggioranza dei nostri connazionali inizia il padre di tutti i problemi: essi non sentono più l’orgoglio di essere italiani.

Come si può essere orgogliosi di un capo di governo ultra settantenne che corre appresso alle minorenni? Come si fa a essere orgogliosi di uno Stato che prende una bimba di pochi anni e sua madre e, con burocratica, ottusa indifferenza, li consegna ai loro persecutori in Kazakistan? Come si può essere orgogliosi di vivere in un Paese dove molti pensionati per mangiare devono andare a rubare qualche cibaria nei centri commerciali? Né, alfine, possiamo essere orgogliosi di noi stessi che un tale obbrobrio stiamo tollerando da parecchi anni.

D’altronde, è stata proprio quest’incomprensibile tolleranza che ci ha portato a quella che l’etologo Konrad Lorenz definì «Rinuncia coatta alla comprensione», rinuncia che ha provocato l’appiattimento culturale e il disseccamento della tradizione storica.

Da dove ripartiamo, allora, per invertire la tendenza? Secondo noi, di là della crisi economica che ci sta mangiando il presente e il futuro, per invertire il corso delle cose dovremmo ripartire dalla cultura e da una rinnovata idea di Stato nazionale perché le due cose sono inscindibili.

Per rendercene conto dobbiamo soffermarci sulle cause che determinarono quel periodo aureo per le lettere, l’arte e la politica che ricordiamo come il periodo dell’Umanesimo, il movimento culturale che, tra le altre cose, fece uscire gli italiani da una granitica concezione teocentrica dell’esistenza che da quel momento, paradossalmente, dovette misurarsi con quella favilla divina che è la ragione. Fu allora che iniziò a eclissarsi veramente il Medioevo e a diffondersi, sebbene molto lentamente, un maggior rispetto per la dignità dell’uomo e per la sua autonomia religiosa, che di quella intellettuale è figlia. Presupposti indispensabili questi perché, attraverso fasi successive, si potesse giungere allo Stato illuminista prima e a quello nazionale poi. Centri di diffusione di quei fermenti furono le corti principesche, mentre oggi che sono spariti i principi, sono sparite le corti intellettuali e sono spariti pure i mecenati, dobbiamo incominciare a pensare a nuovi modelli di diffusione della cultura e delle idee se vogliamo evitare le due cose che, entro breve, potrebbero capitare: una rivolta generalizzata o, in alternativa, il completo dissolvimento del Paese nell’Europa delle tasse.

Il rimedio a queste due fosche ma realistiche prospettive sarebbe di ritornare a essere più NAZIONE e meno PAESE, prima italiani e poi europei. Al riguardo dovremmo ricordare il passato: la Germania e il Giappone benché fossero uscite stritolate dalla seconda guerra mondiale, nel giro di soli vent’anni, si collocarono tra le prime economie del mondo e questo soltanto perché i loro cittadini erano, e si sentivano, un popolo, una nazione dove anche i media partecipavano alla rinascenza post bellica. Purtroppo quelli delle nostre parti, invece di caricare di significati civici o patriottici l’impresa del maggiore Parmitano, hanno preferito indugiare sulle chiappe da spiaggia delle varie starlette televisive sicché anche stavolta siamo riusciti a passare «Dalle stelle alle stalle». E speriamo che le vacche vere non si offendano per questa intrusione.

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