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Attualità

SENTII LA MORTE DENTRO

LILIANO FRATTINI - 11/10/2013

Cinquant’anni, cinquant’anni di esistenza e di ricordi. In quell’8 ottobre del 1963 ero nella redazione dell’Avanti!, a Milano, nel Palazzo dei Giornali, a piazza Cavour: terzo piano. Le stanze della redazione si erano svuotate. Ero rimasto con pochi colleghi della pagina di cronaca milanese. Anche l’addetto alla telescrivente se n’era andato. Guardai l’orologio, erano le 22.30. Mi offrii di ritirare lo striscione di carta con le ultime notizie. Strappai pensando che di lì a poco me ne sarei andato. Rientrando nello stanzone della cronaca lo sguardo si fissò su un flash: “Crollata la diga del Vajont”: ci scambiammo sguardi sorpresi e incuriositi chiedendoci dove si trovava “sta diga” e “sto Vajont”.

Mi sedetti e aspettai: non sapevo cosa dovessi aspettare, anche perché non c’era più il direttore, né il redattorecapo – centrale che decidesse per un eventuale servizio. Se prima non accertavamo la località ogni congettura era inutile e con il caposervizio delle pagine degli “interni” concordammo di seguire “la cosa”: mano a mano che leggevamo direttamente le notizie del fatto davanti alla telescrivente ci convincemmo sempre di più che si trattava di una tragedia che richiedeva presenze di inviati sul posto. Ma data l’assenza di mezzi di trasporto del giornale pronti sul posto, telefonammo al nostro corrispondente da Udine sollecitandolo “a stare con gli occhi aperti”.

Abitavo a Sesto San Giovanni, la ex “Stalingrado d’Italia”, in via don Minzoni e avevo come vicino di casa il sindaco “rosso”. Ricordo che mi spogliai a metà, pronto a fare qualcosa se mi avessero cercato. Ma fui io a arrivare alle 6,30 al giornale dove non c’era ancora nessuno (faccio un inciso: in quegli anni non c’erano le dirette televisive, non c’era internet, non c’erano cellulari, informazioni web. Le notizie per un “pezzo” sul giornale si dettavano, da un telefono fisso, agli stenografi. Poi c’era il “fuori busta” lo scritto infilato in una busta che godeva di un trattamento favorevole da parte delle Poste).

Arrivato il direttore l’incarico fu affidato a un anziano inviato, una “firma”, un collega validissimo e molto stimato. “Tu vuoi andarci?” mi chiese il direttore “Se hai la tua macchina, vacci”. Cosa avreste fatto voi? Io corsi a casa con il mezzo pubblico, saltai sull’auto (dopo aver racimolato un po’ di soldi) e puntai su Pordenone, passando per Bergamo e Brescia. Poi i mezzi di soccorso, la fila di macchine, le sirene, la polizia, i carabinieri, i vigili del fuoco e tanti, tanti, tantissimi volontari della solidarietà mi accompagnarono al luogo dell’immane, mostruosa tragedia. Vidi allora realmente cosa era successo. Solo morte e distruzione. Pianti e dolore. Erto e Casso. Diga e invaso. Monte Tomba e Longarone. Una gigantesca frana di cinquanta milioni di metri cubi. Paesi rasi al suolo. Responsabilità morali, civili, tecniche. Una diga costruita da sciagurati ingegneri, da una società, la SADE, che mirava solo al profitto, ai soldi, al denaro. L’assenza totale dello Stato. Un’agenzia ANSA che diceva alle due meno un quarto di notte che “nella zona del Vajont e nell’abitato di Longarone un’enorme massa d’acqua è scesa dalla gola in cui si trova la diga e si è abbattuta nella valle”.

È vero, adesso posso dire che era un paesaggio lunare, che c’era un’atmosfera giallognola. Allora vidi solo cosa può fare l’uomo, cosa la cupidigia, il potere, la prepotenza, l’ignavia, l’approssimazione accademica, la speculazione, le ferite al creato, la negazione dei valori morali: Dio c’era ma non c’erano quelli che costruirono una diga che Tina Merlin undici mesi prima denunciò sull’Unità: “Una enorme frana di cinquanta milioni di metri cubi di materiale, tutta una montagna sul versante sinistro del lago artificiale sta franando. Non si può sapere se il cedimento sarà lento o avverrà un terribile schianto. In questo caso non si possono prevedere le conseguenze”.

È stato raccontato tutto, io non ho nulla da aggiungere. Ancora non si sa quanti sono stati i morti: duemila, tremila…

Penso ai morti di Lampedusa, ai loro corpi avvolti in teloni, alle bare. Ma sono lontani e allora non si sente l’odore di morte. Penso che la televisione farebbe bene a trasmettere le scene normali della tragedia del mare, fare ascoltare le grida di disperazione, le urla che annientano l’anima. Svegliare le coscienze.

Anch’io in redazione quella sera di cinquanta anni fa commentai con amarezza quella tragedia. Ma fu solo poi quando la vidi che sentii la morte dentro e chiesi a Dio perdono.

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