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Attualità

LA STORIA DI MEBRAT

LUISA OPRANDI - 11/10/2013

Questa è la storia di MEBRAT: dall’Etiopia a Varese inseguendo la certezza che la vita è ricerca, coraggio, dono, apertura del cuore. “Ho avuto la fortuna di avere tre mamme e due sono varesine” racconta. Una vicenda forte e intensa che raccontiamo in due puntate.

“Io ho mille e più anni, perché in me c’è la storia di tutte le persone che ho incontrato, mi hanno amata, fatta diventare quella che sono. E c’è tutta la memoria personale che le signore anziane che assisto mi affidano nel loro quotidiano”. Lo dice con dolce convinzione Mebrat Beyan, a Varese da ventitre anni, dopo avere lasciato Addis Abeba poco più che sedicenne.

Occhi vivaci, un grande sorriso, in mano il suo quaderno di poesie e pensieri narrati, in un angolo la chitarra con la quale accompagna le canzoni da lei composte.

Mi accoglie nella soleggiata stanza, il “suo studio” dell’abitazione in cui lavora in assistenza a Lilli, una graziosa signora ultranovantenne, con la quale ha intessuto un palpabile rapporto di grande reciproca familiarità.

Piace a Mebrat raccontare di sé, della sua vicenda di ragazza orfana ancora adolescente, venuta via dalla propria terra per inseguire l’amore per l’Italia che misteriosamente l’affascinava da sempre. “Ma io sono fortunata” ci tiene a dire “non sono dovuta fuggire, come a tantissime persone accade purtroppo, dalla povertà o dalla guerra”. E intanto affida la narrazione a partire dal ricordo della mamma, una splendida figura di donna, scomparsa presumibilmente per un avvelenamento, non ancora quarantenne.

“Si chiamava MMHR-ABEBA-ZEMANIEL ed era attivissima, culturalmente e socialmente – prende a raccontare Mebrat – Laureata in Economia e Commercio, faceva l’insegnante di scuola media, parlava sei lingue (greco, italiano, inglese, arabo, amarico – la lingua ufficiale dell’Etiopia – e tigrigno, la lingua locale) ed era il “sindaco delle donne” ad Asmara. Cresciuta in una famiglia importante (la nonna di Mebrat era figlia di un conte) aveva messo tutta la sua forza di carattere e la sua grande cultura a servizio degli altri, dei ragazzi indigenti che aiutava a studiare e accoglieva in casa come figli e delle donne del suo paese”

Dalle parole, che scorrono fluide in un italiano perfetto, esce pian piano la figura affascinante di quella mamma coraggiosa e tenace, amorevole e solida, capace persino di rinunciare a un grande amore per sposarsi con un uomo di vent’anni maggiore di lei ma che le avrebbe garantito di potere accogliere nella loro famiglia anche tre nipoti restati orfani.

“Alla fine eravamo in venti in famiglia: la mamma e il papà, la nonna, lo zio, i nipoti, io ei miei sei fratelli e poi altri ragazzi, accolti appunto nella nostra casa” la naturalezza con cui Mebrat elenca i componenti di questa numerosa famiglia incrocia il mio sguardo incredulo.

“Quando la mamma morì ero appena dodicenne e il dolore straziante mi aveva resa arrabbiatissima – prosegue nel racconto – tanto che mio padre temette che, per ribellione al dolore, potessi scegliere di andare nella foresta a fare la guerriera a sostegno degli Eritrei, al seguito di un mio fratello cui ero legatissima. Per questa ragione da Asmara venni mandata ad Addis Abeba, dove iniziai fin da quella giovanissima età a lavorare”.

Quello con il papà è un rapporto che emerge con minore dolcezza, rispetto al ricordo tenero della mamma: ugualmente colto, il padre di Mebrat era stato dapprima soldato nell’esercito inglese ed in seguito professionista dell’investigazione, nonché arbitro di calcio, corridore e judoka.

“Poco avevano in comune i miei genitori e la mamma aveva provato, attraverso tutte le vie legali possibili, a divorziare, ma senza riuscirci. Lei combatteva per i diritti delle donne, lui le donne le odiava” prosegue Mebrat, che tratteggia i segni decisi della tempra materna con altrettanta determinazione nel riassumere il dolore tutto femminile di una sposa tradita da un marito che aveva avuto figli da cinque donne diverse, di cui una pressappoco coetanea della moglie stessa.

“Era cristiano ortodosso mio padre, eppure non ci ha risparmiato tante fatiche e umiliazioni, fino a quella, dopo la morte della mamma, di chiedere scusa alle figlie, riferendosi esplicitamente al fatto di essere in qualche modo coinvolto nella morte della moglie per avvelenamento”. Scuse che a Mebrat, ancora oggi, paiono lame taglienti in ferite già profonde e impossibili da rimarginare senza aggiungere ad ogni ricordo un rinnovato dolore.

La strada della risalita era ancora distante, difficile d intravedere. Ma la profonda fede, respirata dalla mamma cattolica e dalla nonna, fervente ortodossa, era già un porto sicuro nella giovane vita di una ragazza che già da allora ha una sola certezza “gli altri sono un dono e se apri il cuore trovi aperto ad accoglierti anche quello degli altri”.

E a Varese questo cuore spalancato Mebrat l’ha trovato… in volti, nomi, situazioni che porta con sé. “Ho avuto la fortuna di avere tre mamme e due di esse sono varesine”. Una terra, la nostra, capace di accoglienza, solidarietà, calore di affetti e amicizie grandi.

Come grande è il sorriso con cui Mebrat, per raccontare la speranza che Varese le ha restituito, vince la fatica di riprendere a raccontare da quel momento in cui, a soli tredici anni e da poco orfana di mamma, il padre l’aveva allontanata da Asmara e mandata ad Addis Abeba a casa di una “sorellastra”. Così insiste nel chiamare la donna che, solo tre anni più tardi, allorché anche il padre morì, le riservò l’umiliazione di prometterla in sposa ad un uomo anziano, favorendo persino un tentativo di violenza allo scopo di obbligarla, in seguito, ad un matrimonio riparatore, vista la ribellione di Mebrat ad accettare.

(1- continua)

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