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Attualità

SE IL CODICE PENALE NON SERVE

FRANCO GIANNANTONI - 08/11/2013

Il memoriale dell’olocausto, a Berlino

Per far cambiare idea ad una persona, migliorandola, non si può intervenire con una norma penale. È sbagliato. Quella persona deve essere educata, accompagnata per mano lungo il sentiero della revisione, accudita culturalmente, cresciuta. Tanto più quando l’idea che circola come la peste è quella del “negazionismo” di cui si vorrebbe, da parte della classe politica, celebrare la morte con una bella condanna alla reclusione.

Niente affatto. Il risultato non sarebbe raggiunto, e, al contrario, gli adepti della scellerata interpretazione che vorrebbe che la Shoah sia stata un’invenzione e che le camere a gas siano state il frutto della propaganda alleata, troverebbero il modo di fare ancora più chiasso, aumentando nelle fragili menti che popolano oggi questa società l’effetto propagandistico. Dunque nessuna norma penale ma una battaglia dal basso, nelle famiglie e nelle scuole. Ma non è come dire. Famiglie e scuole sono frutto diretto di questa nostra fragilissima condizione e il sogno, legittimo, ma pur sempre sogno, rischia di restare tale.

Il vuoto culturale è di proporzioni enormi, conseguenza di un lungo periodo in cui l’immagine dell’effimero, del tutto facile, del tutto possibile, con la cultura relegata in un angolo (celebre e tragico il motto dell’ex ministro Tremonti che sostenne tronfio “che con la cultura non si mangia”), con la ricerca dimezzata, con il sistema scolastico allo sbando, con voci di bilancio da quarto mondo, ha trionfato. È stato un “disegno politico” ben definito per nulla casuale. Una scelta di fondo. Pensare di risalire la china in tempi brevi o medi è pura follia. Il Paese, per rinascere, ha bisogno di generazioni.

La premessa serve per rendere pubblico l’appello di un gruppo di storici, Marcello Flores, Sergio Luzzatto, David Bidussa, Giovanni Gozzini, Mario Isnenghi, Fabio Levi, Paolo Pezzino, Claudio Pavone, Gabriele Ranzato e altri nomi illustri, al mondo politico allo scopo di fare carta straccia del progetto che vorrebbe processato “il negazionista” di turno. Il punto centrale è questo: punire con il carcere chi non ammette il genocidio o il crimine di guerra è controproducente e solleva la società civile, già in tristi condizioni, dal creare degli anticorpi.

Riflettiamo assieme. “La storia non è una religione”: lo storico non rispetta alcun dogma. “La storia non è la morale”; lo storico non premia né condanna ma spiega. “La storia non è un oggetto giuridico”: in una società libera la verità storica non appartiene né al Parlamento né a un consesso di giudici. Dunque libertà per la storia.

Da qui la preoccupazione degli storici, e quelli elencati sono fra i maggiori, che si stia cercando di metter mano al tema gravissimo del negazionismo, frutto di menti bacate, con una legge (oggi in discussione al Senato con pene da uno a cinque anni) e una pratica giudiziaria. Il risultato sarebbe negativo come del resto è accaduto in quei Paesi dove si è battuta questa infida strada e dove la copertura mediatica dei processi hanno prodotto una tribuna per la diffusione di tesi ignobili altrimenti del tutto ignorate dalla pubblica opinione.

La strada della libertà storica di Stato – sottolinea il gruppo degli appellanti – propria dei regimi totalitari, “non sembra utile per prendere coscienza e consapevolezza dei crimini del passato ma rischia di trasformare in paladini della libertà d’espressione coloro che osano pronunciare giudizi contrari non solo alla verità storica ampiamente acclarata ma allo stesso buon senso”.

La legge in esame appare ambigua, difficile da interpretare e quello che più colpisce di complicatissima attuazione. Dovrà essere infatti il giudice a decidere se vi sia stata una negazione di qualche crimine di guerra o di genocidio e spetterà ancora allo stesso giudice valutare quali massacri corrispondono a queste categorie. Su quali basi? Sui giudizi espressi a Norimberga, ex Jugoslavia, Ruanda, da Corti internazionali? Oppure possono valere anche i giudizi di Tribunali nazionali per cui fu genocidio l’eccidio dei colonnelli di Videla in Argentina con i prigionieri gettati vivi dagli aerei in volo e non invece quelli dei Khmer rossi in Cambogia? E poi una volta stabilita la regola da applicare che senso avrebbe gettare in carcere ragazzotti o attempati signori che ignorano tutto di quelle tragedie e rincorrono solo bieca propaganda nazistoide? Se l’obiettivo di questi sciagurati è quello di fomentare l’odio etnico o religioso, le leggi per impedirlo o scoraggiarlo esistono già.

L’appello suona chiaro: “non sostituire i manuali di storia con una legge penale”.

C’è un’autorevole “voce” fuori dal coro. È quella di Liliana Picciotto, direttrice del Centro Documentazione Ebraica di Milano, la maggiore studiosa italiana della Shoah. Appare perplessa. D’accordo con la tesi del gruppo degli storici ma qualcosa di immediato deve essere pure fatto perché non è possibile “tollerare il proliferare di falsità e di pensare di combatterle con le nostre corrette argomentazioni e con la cultura”. Una legge, secondo la studiosa, “potrebbe essere inefficace ma avrebbe comunque un forte valore simbolico, una specie di dichiarazione di intenti di un ipotetico codice etico virtuale condiviso”.

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