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Cultura

IL DECIMO COMANDAMENTO

LIVIO GHIRINGHELLI - 14/02/2014

Esodo 20,17: Non desidererai la casa del tuo prossimo; a seguire: la moglie del tuo prossimo, né il suo schiavo, né la sua schiava, né il suo bue, né il suo asino, né alcuna cosa appartenente al tuo prossimo. È l’ultimo precetto del decalogo a sottolineare l’intenzionalità soggettiva del desiderio, mentre il settimo (non rubare) proibisce genericamente il furto.

Ci troviamo nel contesto di una concezione patriarcale arcaica, che nella categoria dei beni contempla in seconda istanza anche la donna, la moglie. Il primato è affidato alla casa, intesa nella sua dimensione globale, che trascende il mero edificio costruito. Si vuote tutelare la proprietà ereditaria, frutto della divisione della Terra promessa, diritto intangibile che costituisce l’ebreo come cittadino nella pienezza della sua dignità. In questo stadio la donna non gode ancora di piena capacità giuridica. Nel corso della degradazione si specificano il bestiame e i vari beni materiali.

Invece Deuteronomio 5, 21 inverte i termini principali, imponendo di non desiderare in primo luogo la moglie del tuo prossimo. Ora la donna è estrapolata dall’asse patrimoniale della casa e acquista una posizione autonoma; la casa si riduce semplicemente all’edificio e al fondo agricolo collegato (non si tratta più dell’eredità quasi sacrale connessa alla persona). E la legislazione del Deuteronomio persegue con maledizione soprattutto l’illecito di spostare i confini del prossimo. Prassi deprecata anche nel libro dei Proverbi 22, 28: non spostare il vecchio confine che posero i tuoi padri; 23,10: non spostare il confine della vedova e non entrare nei campi degli orfani.

Il popolo ora è stratificato in classi, la sua memoria non gli presenta più l’originaria eguaglianza con la ripartizione del territorio, ampiamente descritta nel libro di Giosuè, secondo canoni tribali. Solo la voce dei Profeti instancabile cerca di ridestare le parole del Sinai nella coscienza intorpidita di chi specula sulla terra, dei latifondisti. Isaia 5,8: Guai a coloro che aggiungono casa a casa, che uniscono campo a campo, finché non vi sia spazio e voi rimaniate soli ad abitare in mezzo al paese. Questa avidità materiale è segno di un progetto perseguito grazie a mente, volontà, azione. Non si tratta di una semplice pulsione, ma di una opzione di vita, non di una reazione spontanea, bensì di una decisione pensata, calibrata, maturata, frutto di una strategia.

Cristo giunge nella maturità dei tempi a portare a pienezza la Legge e i Profeti, non ad abolirli; respinge l’interpretazione riduttiva e letteralista e vede nel desiderio smodato del possesso la cellula embrionale della trasgressione sistematica. La proibizione peraltro rende più suggestiva la tentazione, il peccato; il precetto stimola il gusto della violazione. Ma c’è un recupero rispetto agli imperativi negativi apodittici dei comandamenti, quello dell’asserto paolino: Amerai il tuo prossimo come te stesso. Cancellato il desiderio, la nuova legge è nella carità.

Certo desiderio sia in ebraico che in greco significa ambivalenza tra brama tempestosa per un verso, ispirazione alta per l’altro e celebrazione della grandezza dei nostri aneliti. Sono oggetti di desiderio legittimo i tesori che sono segno dello splendore sociale, come della memoria storica di un popolo; la Sapienza posta sotto il patronato simbolico di Salomone; l’amore, come quello che nel Cantico dei Cantici, già dal bacio d’esordio, si orienta non verso la conquista, ma si sviluppa in una ricerca instancabile d’assoluto, avendo a meta l’infinito; ultimo ed eccelso il desiderio radicale e inestinguibile di Dio. L’inquietudine agostiniana può riposare solo nella trascendenza.

Così si può superare una lettura soltanto negativa, anche se la costanza strutturale è nella tensione, l’insoddisfacibilità ultima leopardiana, perché nell’uomo c’è lo stigma dell’infinito e dell’eterno. Detestabile è il livore famelico del desiderio dei beni terreni (vedi La roba di Verga), l’accumulare ricchezze infinite infinitamente moltiplicate senza mai limite, sacrificare i valori sull’altare delle cose. Per san Bernardo l’avarizia è un continuo vivere in miseria per paura della miseria.

L’imperativo sociale fa che il desiderare molto preluda a un desiderare sempre di più in un’economia alienante. Così il desiderio non trova mai soddisfazione e gli oggetti desiderati sono numerosi e sterili germi di dolori. Platone non credeva che il piacere avesse la reale possibilità di colmare il desiderio; la scuola epicurea si distingueva per la ricerca della misura a scanso del dolore. Gregorio di Nissa nella Vita di Mosé asserisce che il desiderio è costituito da un di più, che non si estingue neppure dinanzi a Dio. Per Hobbes è da deprecare il desiderio perpetuo d’acquisire potere su potere sino alla morte (Leviatano). Spinoza invoca la necessità di fare chiarezza sull’oscurità delle passioni.

A noi soprattutto si impone di non considerare e volere come proprio quanto appartiene in comune a tutti. La parabola del giovane ricco vede nel protagonista chi non vuole mai dare, ma sempre ostinatamente prendere per una hybris incontenibile nonostante le apparenze.

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