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Ambiente

ORGOGLIO PER UN PATRIMONIO

ARTURO BORTOLUZZI - 25/04/2014

Nel nord della provincia di Varese possiamo godere di ben quattro patrimoni dell’umanità Unesco: il versante italiano del Monte San Giorgio, il sacro Monte di Varese, l’isolino Virginia e il Parco archeologico di Castelseprio con la chiesa di Santa Maria Foris Portas. Ognuna di queste presenze ha una propria ragione per potersi fregiare di questo alto riconoscimento.

Queste non sono le uniche preziosità del Varesotto ma ce ne sono tante altre che non sono state stimate come si dovrebbe e invece si potrebbe per il loro indubbio valore. I citati “Patrimoni dell’umanità” mancano di un rapporto tra loro e neppure vi è un collegamento tra questi e aeroporti, ferrovie, direttrici stradali (e alberghi, ristoranti e… tour operator). Neanche c’è un rapporto diretto con le scuole di ogni ordine e grado. E neppure c’è una relazione tra queste presenze e il mondo del lavoro (e dire che si parla di disoccupazione giovanile…). Non sono realizzate reti né locali né nazionali né transnazionali.

Nell’ultimo mese abbiamo addirittura perso una fetta del Castello di Belforte e una parte della seicentesca cascina Burattana a Busto.

Eppure come leggiamo sul Sole 24 ore, secondo un rapporto dell’Unioncamere, l’industria culturale impiega il doppio degli addetti rispetto all’industria assicurativa e finanziaria: i beni culturali e quelli paesaggistici sono tutto fuorché oneri improduttivi da mantenere, ma preziose occasioni di sviluppo e di lavoro. Abbiamo in Italia 424 musei e solo otto assorbono il 50% dei visitatori: c’è molto spazio per iniziative che creino lavoro.

Questo dato dovrebbe essere tenuto in conto dalla nostra politica che dovrebbe capire quanto questo sia chiamato a essere un punto di partenza per il futuro delle nuove generazioni degli italiani e comunque per garantire la ricchezza del territorio. Fare rete non vuole dire utilizzare una ‘frase fatta’ e vuota, ma vuol dire lavorare per produrre ricchezza, utilizzando le risorse che si ha la fortuna di poter disporre anche in un’ottica vasta.

Negli ultimi cinque anni il Parlamento europeo ha giocato un ruolo fondamentale nell’investimento sugli itinerari culturali, stanziando oltre 7 milioni di euro in tre anni a sostegno di progetti e servizi per itinerari turistici, culturali e industriali. Dal 2015 questo capitolo di bilancio potrà diventare permanente. Nella legge Destinazione Italia, per esempio, è stato previsto un fondo di 500 milioni di euro destinato ai progetti presentati da Comuni – anche in partnership – per la valorizzazione del patrimonio, in linea con le azioni per Expo 2015, con budget che andranno da1 a5 milioni per progetto.

Sfruttiamo le nostre risorse valorizzandole e non disperdendole. Si potrà fare così se verrà posta al centro dell’attenzione la questione cruciale della cultura. Grazie a questa potremo ritrovare lo slancio verso il nostro futuro. La cultura non va solo intesa quale forma d’arte ma in un modo più ampio. Cultura che va a ricomprendere – ed è qui il tratto italiano di questa “cultura” da cui zampillano produzione e benessere – l’immenso patrimonio artistico, paesaggistico e architettonico del nostro Paese. Un patrimonio che è molto di più di una collezione di musei e parchi archeologici. Perché è dalla linfa di quel passato che derivano i successi della nostra manifattura, dal “saper fare” accumulato nei secoli e tramandato di generazione in generazione, dall’amore per il lavoro ben fatto, da quella mescita di innovazione ed emulazione che segna le inimitabili fattezze dei distretti industriali (citiamo quella frase di un grande economista, Alfred Marshall: «È come se i segreti del mestiere volteggiassero nell’aria»).

Ma oggi – e non da oggi – l’Italia arranca. In che misura la povertà della crescita italiana dipende dalla scarsa attenzione a quella culturale e primigenia sorgente? E che cosa si può fare per liberare quella sorgente dai detriti che la ostruiscono e riaprire quei canali che scorrono dalla cultura al prodotto, passando per l’immagine e il racconto dei nostri volti produttivi?

In Italia c’è un refrain che viene urlato a voce alta dai politici nazionali: “Non ci sono soldi!”.

Sembra che, quindi, spendere anche pochi soldi in cultura, equivalga a gettare al vento delle risorse. Invece, anche solo un euro in più speso per la cultura (non in un modo statico), va visto non come un sussidio ma come un investimento. Ricorrendo a una immagine evangelica: non sarebbe un seme gettato fra i rovi né quello gettato fra i sassi o sulla strada. Sarebbe, invece, un seme gettato «sulla terra buona», capace di dare frutto. Oltre all’effetto diretto sulla domanda va anche messo in conto il cruciale impatto – indiretto ma reale – sulla immagine dell’Italia nel mondo.

Non è possibile quantificare con scientifica precisione il frutto di “quei pochi soldi in più”, spesi per la cultura. Ma in questo processo indiziario si potrebbe presumere con verosimiglianza il risultato finale. Quanto è capitato alla Castello di Belforte è un male italiano che dalla Lombardia passa alla Campania. È sotto gli occhi di tutti l’incuria per il nostro patrimonio artistico (basti citare Pompei), l’incapacità di usare dei nostri capolavori per farne “racconti” capaci di proiettare un’immagine diversa: non l’immagine di oggi, l’immagine di un Paese mediocre che vive di un grande passato ma quella di un Paese che vuole attingere al passato per proiettare, qui e oggi, la coda brillante di una cometa che solca da secoli i cieli del globo. Fervono, nel nostro Paese le tristi polemiche sul “declinismo”. Polemiche che lasciano il tempo che trovano se non sono assortite da rimedi che non posso che invocare a gran voce.

La diagnosi l’ho appena esposta. L’Italia ha distolto lo sguardo dalle sue sorgenti, ha lasciato deperire le sue vere ricchezze, ha dimenticato di curare e innaffiare quella terra dove affondano le sue radici. Ed è la diagnosi che detta la cura. È solo mettendo al centro dell’attenzione la questione cruciale della cultura che potremo ritrovare, attraverso quella proficua collaborazione fra pubblico e privato che finora è mancata, attraverso la moltiplicazione delle iniziative intese a una manutenzione ordinaria e straordinaria dello sterminato patrimonio culturale, l’orgoglio del nostro passato, la fiducia nel nostro presente e lo slancio verso il nostro futuro.

La si smetta di dire che Varese non è né Firenze né Venezia per avere alibi e per fare crollare ogni traccia del passato. Cominciamo noi, nel nostro piccolo, a valorizzare le nostre ricchezze. Daremo un esempio a chi si ritrova in un territorio più fortunato del nostro.

Nelle foto: immagini da  www.unescovarese.com dedicato ai siti del patrimonio Unesco in provincia di Varese

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