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Storia

L’ARMA DELLA FEDELTÀ

VINCENZO CIARAFFA - 09/05/2014

La carica dei Carabinieri a Pastrengo

Il 13 luglio del 2014 l’Arma dei carabinieri compirà duecento anni ed è giusto incominciare a domandarsi perché questo Corpo così amato e corbellato dagli italiani abbia conservato un’indistruttibile compattezza ideale nelle pur contrapposte, tormentate vicende che hanno caratterizzato la storia del nostro Paese proprio negli ultimi due secoli. La compattezza ideale che ha contrassegnato l’Arma dei carabinieri dal 1814 a oggi si basa su molte virtù ma preferiamo ricordarne una soltanto che per tutti i Carabinieri è diventato un ineludibile impegno morale: la fedeltà.

Parlare di fedeltà nella patria di Guicciardini e Macchiavelli e di una classe politica che ha fatto del trasformismo, del tradimento ideale e della doppia morale il sistema di governo degli uomini, potrebbe far sorridere se non si cercasse di capire che cosa significhi per un carabiniere “essere carabiniere”. Adesso non vorremmo fare come Totò che in un film degli anni Cinquanta del secolo scorso, soltanto perché amico di uno che aveva fatto il militare a Cuneo si riteneva un uomo di vaste conoscenze, perché chi scrive, è figlio e fratello di due bravi appartenenti all’Arma dei carabinieri. Questa precisazione è importante perché soltanto chi (per ragioni familiari…) abbia bazzicato in una stazione dei carabinieri del dopoguerra può essersi fatta un’idea del retaggio ideale che univa e unisce migliaia di individui diversi per estrazione regionale, livelli di scolarizzazione e cultura professionale.

A cavallo degli anni Cinquanta/Sessanta del secolo scorso quando si entrava in una stazione dei carabinieri era come mettere piede su di un pianeta sconosciuto perché ovunque si posassero gli occhi, si leggevano cose incomprensibili ai comuni mortali: camere di sicurezza – caricamento e scaricamento armi – brogliaccio – piantone di servizio – alloggio scapoli – comandante della Stazione. A parte che i ragazzi dei paesi, dove i treni neppure passavano si domandavano di quale stazione fosse comandante il loro maresciallo dei carabinieri, all’epoca la caratteristica principale di una caserma era l’odore che in essa aleggiava, anzi, più che un odore era una miscellanea di odori che riusciva a richiamare molte cose alla memoria olfattiva di chi entrava in caserma. Come dire il cuoio delle bandoliere, l’olio lubrificante delle armi, l’inchiostro dei timbri e l’odore del sugo per la pastasciutta che, a turno, un carabiniere scapolo preparava per sé e per i propri commilitoni, spesso con risultati deprimenti. Non mancavano una bicicletta nera parcheggiata all’entrata e una cassa di legno, con rinforzi di lamiera e con lucchetto che se ne stava ancorata al muro nell’ufficio del comandante tramite una catena ed era pomposamente chiamata “cassaforte a muro”.

Insomma quella dei carabinieri di un tempo era una vita ordinata e sobria. Ebbene, che cosa muoveva quegli uomini così semplici che vivevano in modo quasi monastico eppure tanto temuti dai malfattori e tanto apprezzati dai cittadini perbene? Li sostenevano la fede o la ferrea disciplina? No, li sostenevano l’abnegazione e la fierezza che, uniti alla fedeltà e alla solidarietà, fanno del carabiniere un poliziotto sui generis.

Quando, dove e perché nasce questa sua atipicità? Una risposta appena esauriente a queste tre domande non la troveremmo neppure nei tomi di un’intera enciclopedia a loro dedicata e, tuttavia, proveremo a farlo fidando sulla comprensione dei lettori e sulla longanimità dell’Arma dei carabinieri.

Napoleone Bonaparte sarà stato anche un despota ma non si può dire che non fosse magnanimo con i sovrani italiani che scalzava dal trono giacché, invece di farli prigionieri, si limitava a tollerarne l’esistenza (e le mene…) in Sicilia, come fece col re Borbone Ferdinando I, e con Vittorio Emanuele I rifugiatosi in Sardegna. Prima che il lettore cominci a domandarsi che cosa c’entri Napoleone con i carabinieri, diciamo subito che fu la paura che sulla scena potesse irrompere ancora il Grande corso (come in effetti, farà il primo marzo 1815) che indusse Vittorio Emanuele I alla loro creazione e possiamo perfino sostenere che Napoleone è “presente” nel preambolo delle disposizioni costitutive del Corpo, disposizioni più note come Regie Patenti, con le quali il re sardo-piemontese dispose la creazione di un corpo di polizia militare per il mantenimento del buon ordine e che, poi, diverrà Corpo dei carabinieri reali: «Per ricondurre (ndr, dopo la sbandata napoleonica di molti piemontesi) e assicurare viemaggiormente il buon ordine, e la pubblica tranquillità che le passate disgustose vicende (ndr, Rivoluzione francese e Napoleone) hanno non poco turbata a danno de’ buoni, e fedeli sudditi Nostri, abbiamo riconosciuto essere necessario di porre in esecuzione tutti que’ mezzi, che possono essere confacenti per iscoprire, sottoporre al rigor della Legge i malviventi e male intenzionati, e prevenire le perniciose conseguenze, che da soggetti di simil sorta infesti sempre alla Società (…) Abbiamo già a questo fine date le Nostre disposizioni per istabilire una direzione generale di Buon Governo…».

Per far nascere un corpo militare di polizia, però, oltre alla determinazione sovrana occorsero anche ufficiali esperti come il capitano Luigi Prunotti che, in diciotto articoli, fissò il regolamento del nascente Corpo e nel quale, per la prima volta, comparve il termine carabiniere. Come abbiamo visto ciò avvenne il 13 luglio del 1814 con l’emissione delle Regie Patenti alle quali, il 9 agosto successivo, seguirono le “Determinazioni di Sua Maestà” con cui furono precisate la forza effettiva, l’armamento e perfino la divisa dei nuovi militi della legalità statale. Tali determinazioni stabilivano, peraltro, che uno dei requisiti da possedere per essere ammessi nei Carabinieri reali era di saper leggere e scrivere ed è perciò assolutamente gratuita la diceria popolare che, da due secoli, vuole che i carabinieri vadano sempre in due perché uno di essi sa soltanto leggere e l’altro soltanto scrivere.

«Boccaccio Joannes a Trisobio, filius Joannis Baptist et Mariae Bernardinae jugalium de Bocacis, miles in legione de Carabinieri, plumbae glande confessus de repente oblit anno 1815». Quest’atto di morte, redatto in latino dal viceparroco di Pieve di Vernante nel Cuneese, può considerarsi il documento attestante il primo caduto in servizio della Benemerita. Infatti, il carabiniere Giovanni Boccaccio fu ucciso il 24 aprile del 1815 mentre tentava di arrestare un malfattore. Una ventina di anni dopo incominciò a essere redatto anche l’albo d’onore del Corpo, indirettamente “grazie” a uno dei padri della Patria, Giuseppe Mazzini, che capeggiava assieme a Gerolamo Ramorino una banda di fuoriusciti politici che voleva invadere il regno dalla Savoia. «Per aver preferito di farsi uccidere dai fuoriusciti nelle mani dei quali era caduto, piuttosto che gridare Viva la repubblica, a cui volevano costringerlo, gridando invece Viva il Re». Questa, infatti, fu la motivazione della prima medaglia d’oro al valor militare, alla memoria, concessa al corpo dei Carabinieri reali (Arma lo diventerà in seguito) nella persona del carabiniere Giovan Battista Scapaccino. La storia a volte è bizzarra perché Scapaccino fu insignito di una medaglia al valore per non avere voluto inneggiare alla repubblica che aveva in mente Mazzini, altri suoi commilitoni negli anni a venire riceveranno la medesima decorazione per aver immolato la vita proprio per quella vagheggiata Repubblica. Questo, però, dimostra soltanto che l’Arma dei carabinieri ha ben meritato l’aggettivo di Fedelissima.

La morte del fedele Scapaccino fu il drammatico prodromo del Risorgimento e il suggello di fedeltà che il Corpo dei carabinieri mise sulla storia del nostro Paese, come aveva colto il più irrisoluto e inaffidabile sovrano di Casa Savoia, Carlo Alberto, che così annotò nel suo diario il 2 aprile del 1832: «Il Colonnello dei carabinieri mi ha riferito la nota dei molti arresti della settimana; cinque o sei assassini sono stati commessi; ma tutti i delinquenti furono immediatamente incarcerati. Questo Corpo si è affermato in maniera sorprendente…».

I carabinieri li ritroviamo nel bel mezzo della prima Guerra d’indipendenza alle prese, oltre che con i malfattori del regno sardo-piemontese, con gli austriaci e con… i mustacchi. Infatti, una circolare ministeriale del 9 settembre 1848 specificava che «In seguito all’eccitamento fattone dal comandante di esso corpo, si è significato che la prescrizione dell’articolo prementovato si intenderà in tale senso modificata, vale a dire che li carabinieri reali di qualunque grado potranno portare li baffi, come gli altri militari». Oggi potrà sembrare strano che, nel bel mezzo della prima guerra combattuta per l’unità d’Italia, un ministero della guerra si preoccupasse dei baffi dei carabinieri ma, in effetti, una ragione c’era e riguardava quello che oggi nelle Forze armate si chiama governo del personale.

Bisogna sapere che all’epoca dei fatti i baffi erano un riconosciuto simbolo di mascolinità e, pertanto, li portavano tutti gli italiani adulti di sesso maschile, militari, nobili o popolani che fossero, eccetto preti e, dunque, i Carabinieri reali. Immedesimandosi nello spirito del tempo, si capisce bene come quella proibizione generasse una frustrazione tra gli appartenenti al giovane corpo di polizia, soprattutto a causa delle corbellature delle quali essi erano oggetti da parte degli altri militari che, invece, i mustacchi potevano esibirli e perciò millantavano una maggiore virilità rispetto a loro. E dalla maggiore virilità, alla superiore bravura militare il passo era breve. Ciò, evidentemente, era insopportabile per i fieri carabinieri, perciò il loro comandante aveva “eccitato” il ministero della guerra per far abolire il divieto di portare i baffi. Quel provvedimento ministeriale, pertanto, non fu cervellotico o inopportuno stante la guerra in corso ma ben mirato, anzi, denotava anche certe introspezioni di natura psicologica: quando si combatte e si muore allo stesso modo, e per la medesima causa, è giusto avere anche gli stessi diritti e, perché no, gli stessi baffi.

La prima Guerra d’indipendenza, comunque, fu la classica guerra delle occasioni perdute perché avrebbe potuto avere un esito diverso, se fosse stata combattuta sotto la guida di un sovrano meno mediocre e bacchettone di Carlo Alberto: bastava assestare il colpo di maglio prima che le forze austriache della Lombardia, guidate dal vecchio feldmaresciallo Radetzky potessero ripiegare verso il cosiddetto quadrilatero di Verona, Peschiera, Mantova e Legnago. Elencare tutti gli episodi gloriosi riguardanti i carabinieri in quella sfortunata guerra, richiederebbe ben altri spazi e, perciò, anche stavolta ci limiteremo a citare i principali fatti d’arme che li videro protagonisti, anche perché a noi preme, soprattutto, evidenziare l’essenza professionale, ideale e umana dei carabinieri, perché è quella che li rende unici. D’altronde, non vi fu battaglia delle tre guerre risorgimentali dove non rifulse il loro valore militare, anche se l’episodio più celebrato è quello della carica di Pastrengo dove, per rimediare a un’ennesima avventatezza di Carlo Alberto, il maggiore Alessandro Negri di Sanfront guidò, ripetute volte, la carica di tre squadroni di carabinieri che aprirono così la strada per la conquista di Pastrengo a sciabolate.

I nostri carabinieri però, oltre al coraggio, già da allora avevano uno spirito di corpo e una cocciutaggine difficilmente riscontrabili in altri Corpi armati. Infatti, proprio a Pastrengo, il sottufficiale di uno dei tre squadroni, avendo avuto il cavallo ferito nella prima carica, pur di partecipare alla seconda, saltò sulla sbilenca giumenta di alcuni contadini della zona e si lanciò nella mischia, venendo per questo cicchettato ufficialmente dai propri superiori per « …aver impiegato una cavalcatura non degna di un Carabiniere»: meno male che non era saltato su di un mulo, sennò lo fucilavano!

Chi, però, seppe trasporre in poesia le imprese dei carabinieri nelle guerre risorgimentali fu un fidato collaboratore di Cavour, Costantino Nigra, nel poema “La rassegna di Novara”, che fece da apripista all’abbondante letteratura che fiorirà su questo Corpo nel corso di quasi due secoli: «Calma, severa, tacita, compatta / Ferma in arcione gravemente incede / La prima squadra / e dietro al Re s’accampa / In chiuse file. Pendono alle selle / Lungo le staffe nitide, le canne / Delle temute carabine. Al lume / Delle stelle lampeggiano le sguainate / Sciabole. Brillan di sanguigne tinte / I purpurei pennacchi, erti ed immoti / Come bosco di pioppi irrigidito. Del Re custode e delle leggi schiavi / Sol del dover, usi obbedir tacendo / E tacendo morir, terror de’ rei / Modesti ignoti eroi, vittime oscure / E grandi, anime salde in salde membra / Mostran nei volti austeri, nei securi / Occhi nei larghi lacerati petti / Fiera, indomita virtù latina / Risonate, tamburi; salutate /Aste e vessilli. Onore, onore ai prodi Carabinieri!». Un verso famoso del poema, poi, diverrà il principale motto dell’Arma dei carabinieri anche perché era quello che meglio rappresentava il modo di essere dei carabinieri che sono da sempre eroi senza clamori, umili senza viltà, implacabili senza ferocia.

Avendo combattuto in tutte le guerre del Risorgimento, era scontato che essi avessero a che fare con uno dei suoi artefici, Giuseppe Garibaldi, anche se non sempre i rapporti tra di loro furono sereni e scevri da contrasti, ma ciò era inevitabile perché incarnavano due diversi modi d’interpretare il Risorgimento: quello dei colpi di mano garibaldini e quello della flessibile diplomazia cavourriana. Ai contrasti che nacquero tra il duce dei Mille e i carabinieri torneremo a breve con un episodio a dir poco folclorico. Per adesso andiamo a vedere quando nacque un altro degli appellativi dei quali si fregia l’Arma dei carabinieri e che diventerà un suo sinonimo: Benemerita.

Il 24 giugno del 1864 il deputato Soldi della commissione parlamentare che doveva vagliare l’aumento degli effettivi dell’Arma, fece una relazione al Parlamento di cui riportiamo la parte che ci interessa: «Ci fu grato convincervi che l’interesse che tutti prendono perché l’arma dei reali carabinieri proceda di bene in meglio è in ragione appunto del pregio in cui essa è tenuta, e degli indefessi e segnalati servigi che la rendono dovunque veramente benemerita del paese…». Quel caldeggiato aumento degli effettivi si rese indispensabile perché, proprio in quel periodo, i carabinieri e l’esercito stavano combattendo una guerra partigiana ante litteram contro i seguaci dei Borbone di Napoli, guerra, in verità, condotta con metodi coloniali dal nuovo governo nazionale. In quella lotta senza quartiere, che durerà fino al 1873, la Benemerita riuscì a distruggere, a una a una, le bande dei lealisti borbonici tra i quali si erano infiltrati delinquenti comuni, grazie anche a un carabiniere che diverrà ufficiale per meriti di servizio e che, ancora oggi, è una leggenda del Corpo: Chiaffredo Bergia.

Purtroppo, a distanza di oltre un secolo e mezzo dall’unità i carabinieri stanno ancora combattendo nel nostro Meridione, anche se stavolta il nemico ha altri nomi ma lo stesso fine dei partigiani borbonici: distruggere lo Stato legale. Forse è giunta l’ora che i reggitori di questo disgraziato Paese comincino seriamente a interrogarsi sul perché, dopo un secolo e mezzo, troviamo ancora i carabinieri a combattere l’illegalità nei boschi della Sila e delle Madonie.

Sta di fatto che dopo le promesse fatte da Garibaldi durante l’epopea dei Mille e non mantenute dai governi unitari, nel settembre del 1866 i siciliani diedero inizio a una feroce rivolta popolare che prese di mira tutti i simboli dello Stato, carabinieri in testa. A Corleone (il paese che darà i natali a Totò Riina) cinque carabinieri rimasti con una sola pistola carica e che stavano per essere sopraffatti dai rivoltosi che, aizzati dai soliti “galantuomini”, avevano assalito la loro caserma, preferirono togliersi la vita piuttosto che arrendersi alla teppaglia. Il comportamento dei protagonisti di quella Masada siciliana oggi parrà esagerato, se non addirittura intrisa di fanatismo, soltanto se non consideriamo che cosa scrivesse Costantino Nigra a proposito dei carabinieri “adusi a tacendo morir”.

E ritorniamo ai rapporti tra la Benemerita e Garibaldi. Dopo essere stato battuto dai papalini a Mentana, l’eroe dei due mondi attraversò i confini dello Stato Pontificio e puntò su Firenze – al momento capitale d’Italia – ma il primo ministro Menabrea, che non voleva apparire come il suo mandante agli occhi di Napoleone III che proteggeva l’integrità territoriale dello Stato della Chiesa, ordinò di arrestarlo. Perciò, ad attenderlo al confine Garibaldi trovò un colonnello dei carabinieri che aveva così tanta fretta di tradurlo al carcere militare di La Spezia, da negargli perfino una sosta per soddisfare alcune esigenze corporali. Allora, costipato e anche piuttosto incavolato, il duce dei Mille non riuscì a trattenere dal pronunciare una delle sue telegrafiche frasi anche se essa, come tante altre, non è riportata dai libri di storia: «Lasciatemi almeno pisciare!».

Approfittando, poi, delle disgrazie della Francia il cui esercito nel 1870 fu letteralmente polverizzato da quello prussiano a Sedan, la Roma papalina perdendo il suo protettore in Napoleone III, diverrà la capitale d’Italia. Negli otto mesi successivi moriranno Mazzini, Vittorio Emanuele II e Pio IX che, assieme a Cavour, erano stati i cinque protagonisti/antagonisti del Risorgimento mentre il quinto, Garibaldi, conduceva una vita quasi tranquilla a Caprera, controllato dal governo che non aveva dimenticato le sue non sempre prevedibili iniziative militari.

Garibaldi, però, era un’icona nazionale e pertanto poteva essere controllato con senso della misura e paziente discrezione. Oddio, qualche volta il controllo dei movimenti dell’eroe dei due mondi diventava maniacale, come quando i carabinieri annotavano perfino il nome delle signore che andavano a Caprera per “consolare” la solitudine Garibaldi che, in verità, già si consolava da solo avendo avuto la bellezza di dodici donne e tredici figli di cui l’ultimo, Manlio, nato proprio negli anni in cui i carabinieri lo tenevano sotto controllo.

(1 – continua)

 

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