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Storia

VIETATO CELEBRARE IL BAMBINO

FRANCO GIANNANTONI - 24/12/2011

 

La chiesetta di San Bernardino al Gaggiolo, “zona chiusa” nel 1944

Il Natale 1944 per centinaia di paesini disseminati lungo la fascia di confine con la Confederazione Elvetica, non solo della provincia di Varese, ma dal Novarese al Comasco sino alla Valtellina, avrebbe dovuto trascorrere senza la celebrazione della Messa di mezzanotte, senza l’albero, senza il presepe, senza le povere luminarie della guerra. Tutto doveva restare buio, spento, la fotografia perfetta di quella drammatica stagione.

E così avvenne, frutto diretto e perverso del decreto legislativo di Mussolini del 24 maggio che il 2 agosto successivo, con un certo inspiegabile ritardo, il Capo della Provincia di Varese Mario Bassi, la massima autorità della Repubblica Sociale Italiana sul territorio, aveva deciso di rendere attuativo e che prevedeva per decine e decine di chilometri della frontiera una “zona chiusa”. Si trattava di una striscia di terra della profondità di circa tre chilometri, un vero e proprio trappolone, dove nessuno avrebbe potuto abitare, vivere, lavorare, rispettare le regole civili e neppure quelle religiose “ritenuta la necessità urgente di provvedimenti eccezionali per la sicurezza pubblica durante lo stato di guerra”.

Aveva così preso corpo un’altra odiosa tappa di quella politica repressiva che non accennava ad attenuarsi malgrado la fine fosse già nell’aria: la “terra di nessuno” come era stata chiamata entro la quale i controlli di polizia avrebbero impedito qualsiasi attività umana costringendo le popolazioni di un centinaio di Comuni – esclusi per il Varesotto, Pino Lago Maggiore, Lavena Ponte Tresa, Porto Ceresio, adeguatamente militarizzati – a penose migrazioni all’interno della cinta protetta verso i Comuni limitrofi già sovraffollati per lo sfollamento dal Milanese martoriato dalle bombe Alleate, con famiglie in maggioranza contadine, vecchi, donne e bambini, animali, masserizie, alla ricerca affannosa e tutt’altro che facile di un alloggio e di una stalla.

Solo qualche eccezionale e rarissima autorizzazione del Comando tedesco avrebbe potuto consentire una sospensione delle misure coattive. Anche i sacerdoti avevano subito il peso della norma e così i tanti parroci, poveri eppur vicini ai bisogni della loro gente e soprattutto alla Resistenza (da don Bolgeri, a don Griffanti, a don Pozzi, a don Martegani ecc. ecc.) avevano dovuto prendere atto con la morte nel cuore della ferocia dell’occupante, scatenato nel dare la caccia a chi avesse voluto tentare un’impresa già difficile ed ora diventata quasi impossibile da realizzare.

Le regole fissate dal decreto n. 282 erano infatti rigidissime. “È possibile -diceva il decreto del duce – rientrare per un breve soggiorno per comprovati ed urgenti motivi personali e professionali, ragioni d’affari e di famiglia come casi di morte, malattie gravi, nascite, matrimonio nell’ambito familiare, esclusi però i cittadini svizzeri residenti in Italia, i giornalisti compresi quelli italiani, così come gli ebrei, naturalmente senza riguardo alla loro cittadinanza”.

Era stata allestita in vitro una gigantesca gabbia entro la quale catturare politici, antifascisti, renitenti alle leve di Salò e semiti anche se la gran parte di loro era già al sicuro oltre confine dall’autunno del ’43 (alla fine della guerra il Canton Ticino avrebbe contato ben quarantacinquemila internati italiani, diecimila civili di cui seimila ebrei e trentacinquemila militari) con prezzi sociali molto alti per coloro che abitavano a Biegno, Lozzo, Monteviasco, Curiglia, Dumenza, Longhirolo, Cremenaga, Viconago, Borgnana, Saltrio, Clivio, Cantello e Biviglione di Luino.

Era stato l’ultimo colpo di coda del nazifascismo che aveva stabilito per il 15 agosto (ferragosto!) lo sgombro generale, canoniche, chiese e oratori compresi, dando vita ad un dramma che aveva riguardato anche gli aspetti più squisitamente religiosi.

Il Capo della Provincia Mario Bassi, un ex funzionario della Sepral, l’organismo incaricato di provvedere all’approvvigionamento della popolazione, non avrebbe tollerato nessuna violazione tanto che il 5 agosto aveva richiamato i Podestà al loro dovere ritenendoli “personalmente responsabili se non avessero dato prova di rispettare la legge”.

La presenza su quella striscia di terra della Guardia di Frontiera tedesca, delle SS italiane, della Milizia Confinaria, aveva reso ancora meno sopportabile la situazione al punto che, dopo manifestazioni di protesta (la popolazione di Clivio aveva provato a farlo ma il tentativo si era presto esaurito) la popolazione terrorizzata e abbandonata a sé stessa se n’era andata e chi si era intestardito a fare resistenza era stato arrestato e incarcerato ai Miogni di Varese.

Il periodo di Natale si stava frattanto avvicinando in un clima reso infido dalla penuria dei mezzi, dalla mancanza di cibo e dalla materiale impossibilità di compiere quei pochi riti che la comunità contadina era solita fare. Per prima cosa si era sperato di poter fare ritorno almeno la domenica, figurarsi il giorno della Natività, nelle tante chiesette del confine, luoghi cari alla memoria e al valore fondante della cristiana solidarietà.

Nel tentativo di ammorbidire l’asprezza del provvedimento erano piovute diverse petizioni sul tavolo del Capo della Provincia Mario Bassi e del Questore Luigi Duca ma la morsa del Reich non aveva lasciato spazio alla minima speranza. Il 24 settembre 1944 si era avuta una tangibile conferma quando il capitano Karl Mikoteit, capo posto doganale del Gaggiolo, l’abitato compreso nella “zona chiusa”, si era rivolto con una pesantissima lettera a Mario Pucci, Podestà di Cantello, competente sul Gaggiolo, un personaggio violento che non tollerava bastoni fra le ruote, con la minaccia di punizioni e di arresti a catena “perché alcuni controlli di polizia avevano permesso di scoprire che erano stati tenuti servizi divini nella chiesa di San Bernardino da Siena, il che contrastava con la legge”. In realtà qualche famiglia che in quei mesi si era allontanata trovando rifugio nei paesi limitrofi alla “zona chiusa”, nei giorni festivi aveva fatto ritorno al Gaggiolo sfidando i controlli per andare a pregare nella chiesetta abbandonata e disadorna.

In momenti diversi il diktat dell’ufficiale nazista avrebbe potuto essere superato con uno sforzo di buona volontà anche perché, aveva rimarcato il Questore Duca in una lettera ai camerati tedeschi, esiste “il vivo desiderio della popolazione di sentir Messa nell’avvicinarsi delle festività del Natale nella chiesa suddetta, data la distanza che intercorre fra la frazione Gaggiolo e la frazione Ligurno di quel Comune”.

Luigi Duca, coinvolto nei mesi precedenti nella oscura pagina della caccia antisemita, per acquisire benemerenze e riconoscere a sé stesso e alla RSI un minimo di autonomia amministrativa rispetto ai camerati tedeschi, aveva cercato di anticipare i tempi accordando il suo personale nulla-osta a praticare il culto nella zona vietata, seguito nell’iniziativa dal Podestà Pucci, altro figuro con un pesante fardello sulla coscienza, che si era rivolto al parroco don Angelo Griffanti (il coraggioso sacerdote che, per aver favorito l’8 gennaio del ’44 l’espatrio clandestino di Edda Mussolini con i famosi Diari del marito Galeazzo Ciano, era stato arrestato e recluso a San Vittore per qualche mese) invitandolo a garantire “l’ordine nel corso delle funzioni religiose e assicurare al termine di esse un immediato rientro della popolazione alle proprie case”.

Sembrava che l’éscamotage avesse potuto funzionare ma in realtà i fascisti di Salò non contavano niente. Erano dei servi dell’occupante e così dal Comando Militare di Varese, Platz Kommandantur “1016” nel Collegio Macchi di via Pasubio, requisito al loro apparire in città il 12 settembre 1943 senza trovare il minimo ostacolo, era giunto a stretto giro di posta un rifiuto che non dava scampo.

Nessuna concessione per riti religiosi di alcun tipo, compresa l’agognata Messa di Natale. Anche la Chiesetta di San Bernardino da Siena, proprio sul limite fra l’Italia e la Confederazione Elvetica, doveva restare chiusa. I tedeschi erano parsi inflessibili, sospettosi che fra i fedeli potessero infiltrarsi spie, partigiani, prossimi fuggiaschi, soprattutto gli ebrei, quei “maledetti figli di Giuda” come li aveva sprezzantemente definiti il colonnello Marcello Mereu, comandante della V Legione “Monte Bianco” della Milizia Confinaria di Malnate, ferreo interprete dell’ultima sciagurata legge del duce.

Il 10 ottobre 1944 dopo un ulteriore messaggio di sollecito ai tedeschi del Podestà Mario Pucci nel quale veniva sottolineato quello che avrebbe potuto essere e non fu e cioè “un giusto premio per lo spirito di comprensione e per la disciplina con cui la popolazione ha accettato il provvedimento imposto dal decreto del 24 maggio 1944”, la penosa “querelle” aveva avuto fine. I militi del V° Grenzwache di Innsbruck, specializzati nella repressione lungo i confini, avevano rafforzato i loro controlli.

La Messa di Natale a San Bernardino non si fece. Fu celebrata a Ligurno, qualche chilometro lontano. Per i devoti abitanti del Gaggiolo per tornare si sarebbe dovuto aspettare il 25 aprile.

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