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Attualità

GUERRE DI RELIGIONE E DI PETROLIO

VINCENZO CIARAFFA - 05/09/2014

Abu Bakr al-Baghdadi

«Nei prossimi anni difficilmente muteranno i termini della conflittualità che oppone l’Occidente all’Oriente […] Non è detto che una volta sparito Gheddafi la situazione in quel Paese ritorni alla normalità […] Ci troveremo a dover rimpiangere le innocue stravaganze del dittatore libico».

Da quando scrivemmo queste cose, nel 2011, la situazione nel nord dell’Africa e in Medio Oriente si è aggravata fino al punto che gli abituali frequentatori del social network sono costretti a farsi inorridire ogni giorno da decapitazioni, sgozzamenti, eliminazione di vecchi, donne e bambini per opera dei terroristi di ISIS persi nella follia del jihad.

Per cercare di raccapezzarsi nella magmatica situazione di quei teatri bisogna capire che cosa vi sia dietro quest’organizzazione ancora più estremista di Al Qaeda e che si è inserita in modo devastante nella guerra civile irachena e siriana. Preliminarmente, però, dobbiamo fare un accenno al Mahadi, perché è sul mahadismo – una sorta di attesa messianica – che alcuni Paesi stanno costruendo il progetto di mettere in qualche maniera le mani sul petrolio di Libia, Siria e Iraq.

Già oggi, la Turchia, il Libano, la Cina e lo stesso Israele ricevono dagli impianti caduti in mano ai tagliagole di ISIS oltre 50.000 barili petrolio il giorno, a un terzo del loro valore di mercato, e questo spiega l’origine dei copiosi fondi di cui dispone l’organizzazione, tant’è che il suo Mahadi Abu Bakr al-Baghdadi predica il jihad con un costosissimo Rolex al polso. In verità, la pericolosità di questo truculento fanatico avrebbe dovuto essere chiara agli analisti occidentali già nella scelta del nome, che è nientemeno che quello dello sceicco Abu Bakr, l’amico fraterno e primo successore di Maometto!

Dal dopoguerra in poi, nella galassia islamica si è assistito alla rinascita di un parallelismo tra il pensiero religioso e quello militare, dove il primo prende in esame le problematiche riguardanti la questione autorità/potere e il secondo, lo stato di conflitto armato, in altre parole il jihad. Tale bipartizione sarebbe accettabile se gli integralisti non facessero derivare le atrocità che commettono direttamente dal Corano, dalla volontà di Dio: «Combattete i vostri nemici nella Via di Dio […] Uccideteli ovunque li incontrate - (Corano: II 190, 191)».

Si capisce che una tale interpretazione del dettame divino presuppone dei leader con caratteristiche simili a quelle di un Imam, l’autorità che riassume in sé potere religioso e politico e che, acuendosi la conflittualità esterna o interna che sia, degenera spesso in quel mahadismo molto presente nell’immaginario collettivo delle diseredate masse arabe e che condizionano il comportamento dei loro governanti anche quando si professano moderati.

Per un istruttivo paradosso della storia, toccò a Nasser, il presidente che più si era dato da fare per accelerare la modernizzazione della società egiziana, incarnare la figura di un Mahadi e, per quanto la sua gestione politica e militare possa essere considerata fallimentare sotto ogni aspetto, in lui le masse arabe riscoprirono l’uomo del destino inviato da Dio per risollevare le sorti dell’Islam.

Nel corso dei secoli l’umanità ha conosciuto svariati sistemi politici tesi a dare una risposta a tutte le esigenze degli uomini, ma il sistema del mahadismo non si riflette in nessuno di essi perché si afferma come una teocrazia imperialista, dove il potere politico si fonda sull’equità (adl) di chi esercita il potere; sull’obbedienza (ta ah) dei cittadini e sulla consultazione reciproca (shurà): ma questi sono precetti tribali, non ordinamenti di uno Stato moderno.

Ma, poi, come si manifesta questa equità, posto che l’iniquità è insita nel fatto che, pur vivendo su terre che galleggiano sul petrolio, le masse arabe sono tra le più diseredate della terra? Un’interpretazione strumentale del Corano favorisce l’elusione di tale interrogativo e, anzi, fa sì che il potere esercitato in suo nome sia incontestabile e chi lo esercita, è legittimato dal presupposto che lo fa in nome di Allah. Pertanto, un leader islamico è contestabile soltanto se non assolve uno dei cinque precetti della sua religione di cui il più importante è la corretta professione di fede, come dire che basta essere sunnita invece che sciita, o cristiano, o alawita come Assad, per incorrere nei rigori mortali del jihad.

È ciò che è accaduto anche in Siria dove, partita come una sollevazione popolare dei moderati contro il regime di Bashar Assad, la sollevazione si è poi trasformata in una feroce guerra civile che fino a oggi ha fatto 200.000 morti. In proposito, in seno alle Nazioni Unite si sono creati due blocchi contrapposti e con diritto di veto, come quello capeggiato da russi e cinesi favorevoli ad Assad, e quello che vede in testa Usa, Francia e Inghilterra che volevano, invece, costringere il dittatore siriano ad andare via con la forza. Il perché della condiscendenza dei russi e dei cinesi verso il dittatore siriano è spiegabile: essi che gli islamici li hanno dentro casa sperano che quella guerra di religione “risucchi” un po’ di terroristi dalla Cecenia e dallo Xinjiang islamici. E, poi, a loro conviene anche per altre ragioni. A Putin giova che gli americani vadano a infognarsi in Siria e in Iraq in modo di avere la mano libera nel suo progetto di riannessione delle ex repubbliche socialiste sovietiche di cui l’Ucraina, temiamo, sarà soltanto la prima della lista.

Che gli americani si arenino in Medio Oriente conviene anche ai cinesi per continuare impunemente ad avvicinarsi sempre di più al Golfo Persico via terra, per evitare di rimanere senza petrolio nel caso di un blocco navale Usa. Per fronteggiare una tale evenienza, essi stanno costruendo la Karakorum Higway, una strada che dal Golfo Persico porti direttamente in Cina in modo da continuare ad approvvigionarsi di petrolio in ogni circostanza. È stato con questo fine strategico che la Cina ha finanziato la costruzione del porto di Gward, in Pakistan, e che controlla mediante una società di Singapore. Gward si trova sullo stretto di Hormuz, dove transita il 35% del petrolio mondiale.

Il presidente Usa Barack Obama, che in più di un’occasione chi scrive ha paragonato a un altro opaco abitatore della Casa Bianca, il commerciante di noccioline Jimmy Carter, a questo punto non ha scelta: o si appoggia ad Assad (che pochi mesi fa voleva bombardare) per sconfiggere l’ISIS, trovandosi di fatto alleato di Russia e Cina, o inizia un’altra guerra al terrorismo iracheno e siriano, come dire su due fronti contrapposti e alleati. In ambedue i casi a uscirne vincente sarebbe la dittatura siriana, specialmente se dimostrerà con qualche gesto eclatante di essere l’unica a poter garantire stabilità nell’area. E non escludiamo che una tale dimostrazione non possa passare anche per la Lombardia e il Varesotto, con la liberazione da parte dei regolari siriani dei vari ostaggi occidentali nelle mani dei terroristi, tra i quali Vanessa Marzullo e Greta Ramelli, le due volontarie rapite in Siria nello scorso mese di luglio.

 

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