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Garibalderie

UN’ALTRA PIANTA DA SEGARE

ROBERTO GERVASINI - 10/10/2014

L’albero “fascista” di Largo Resistenza

L’albero “fascista” di Largo Resistenza

No, non sono bastati tre giorni di totale digiuno per disintossicarmi dopo la lettura degli aforismi di Accetta Nera (così vien chiamato l’assessore al verde pubblico in FB) a proposito di selfie in Siria, di utili idioti, di cipressi da segare, di parcheggio alla Prima Cappella, di inchieste della Magistratura da “fantascienza” (“un veri tupicc“, una vera topica, vista la decisione bloccante del Sindaco Fontana due giorni dopo).

No, non stiamo sereni perché non si parla ancora di un altro albero storico nel contesto urbano non filologicamente corretto e quindi da segare, in centro città. Temiamo che un ordine di servizio preveda già il suo abbattimento notturno con speciali motoseghe munite di sofisticati silenziatori fabbricati ad Hong Kong. La pianta fu messa a dimora nel 1932 nella centralissima area che oggi porta il nome di largo Resistenza. Fu messa a dimora in ricordo di Arnaldo Mussolini, fratello del Duce e direttore del Popolo d’Italia, fondatore con Niccolò Giani della Scuola di Mistica fascista, mancato l’anno prima. È evidente che per un discorso storico filologico, elaborato e sostenuto dall’Assessorato di Accetta Nera riguardo i “cipressi” dei giardini estensi, la pianta è da segare, di notte o di giorno non importa, perché una pianta, autoctona o meno, che ricorda Arnaldo Mussolini, e quindi il periodo fascista, non può assolutamente svilupparsi ed espandersi rigogliosa in largo Resistenza; è filologicamente e storicamente scorretta, crea disagio e confusione nelle menti più fragili.

Le piante, come dice un noto agronomo varesino che abita a Sant’Ambrogio e del quale non ricordo il nome, non son di destra e non son di sinistra, credo neanche del centro. Si difende il verde sempre e comunque e se proprio si vuol fare un discorso coerente storico filologico si cominci a demolire a Varese Piazza Monte Grappa, una piazza fascista con pavimentazione verde padano, pavimentazione recente, oppure si spendano soldi utilmente, ad esempio, ma è solo una ragionevole ipotesi, capitozzando non già le piante ma la Torre Civica e, con l’allargamento della fontana, piazzandoci sopra un bel trampolino per tuffi, per la gioia di grandi ed anche dei più piccini. Questa Giunta varesina manca di grande progettualità, si limita all’ordinaria manutenzione, senza afflato, se escludiamo la zona della Schiranna.

Beh, torniamo seri. Al Teatro Santuccio un paio di settimane fa è accaduto qualcosa di straordinario non solo per Varese. Cittadini si son radunati in gran numero, alcuni non han trovato posto, per partecipare ad una vera e sentita manifestazione di volontà di incidere e di dire, convocati dal loro essere, dal loro sentire, dalla loro forza interiore, di reagire. Non hanno detto con la voce, han detto con la loro massiccia, forte partecipazione e gli organizzatori ne dovranno tener conto, per il dire, alla prossima tornata, prevista per domenica 12 ottobre con assembramento alla Prima Cappella nel primo pomeriggio. Rammentiamo che chi desiste dalla lotta è un figlio di… Carlotta.

Un ricordo garibaldino non può mancare oggi, perché a chi scrive par di sognare, dopo oltre centocinquant’anni, quella notte del 23 maggio del 1859 quando il generale Garibaldi arrivò coi suoi uomini a Varese. Lo accolsero i varesini tutti, dal popolo ai nobili, dal clero ai borghesi, e poi artigiani, commercianti, contadini: la voglia di sostenere una sentita battaglia di libertà aveva contagiato tutti, come forse mai era accaduto e mai più accadde dopo. Che l’ultima immagine di Varese non resti quella di prima culla del leghismo. Al Santuccio non c’erano parti e frazioni, c’erano i varesini tutti, di ogni ceto, di diversa estrazione, di differente anima politica legati però da un sentimento forte, volto al cambiamento, al nuovo, ad una nuova forma di partecipazione. Bisogna crescere tutti. Si scopran le tombe, si levino i morti.

Si sale alla Prima Cappella domenica 12 ottobre, così, armati solamente della nostra pazienza perché non abbiamo mai perso la speranza (da Arthur Rimbaud).

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