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Libri

DONNE A POGGIO SANT’ELVIO

CHIARA AMBROSIONI - 07/11/2014

bardi“I vicoli stretti di Poggio Sant’Elvio”, romanzo di Marta Bardi edito da Pietro Macchione editore, si apre con una citazione di Oscar Wilde: “Stupisco sempre me stesso. È l’unica cosa che renda la vita degna di essere vissuta”.

Parole che indicano chi è Marta Bardi, l’autrice di questo giallo, una donna sorridente che spiega con candore “Io penso sempre di non essere capace di fare delle cose, ma sono testarda e mi impegno a fondo. Alla fine, quando si realizzano i miei obiettivi, sono sempre piena di stupore. Allo stesso modo mi stupisce e mi rende felice conoscere l’interesse e la partecipazione di chi mi legge”.

Marta Bardi ha cominciato a scrivere all’inizio del 2000, quasi per caso. Una delle proposte di Varese Corsi era “Scrivere il corto”, organizzata da Il Cavedio. “Ho seguito il corso per un anno – racconta – quindi per un secondo anno. Poi il presidente del Cavedio Fiorenzo Croci (ndr, oggi il presidente de Il Cavedio è Francesca Rigano) mi ha chiesto di affiancarlo nell’insegnamento e io sono stata onorata di farlo e continuo ancora a tenere corsi (ndr, dal 2006 Marta Bardi dirige la sede del Cavedio di Galliate Lombardo). Tra i miei allievi ho avuto scrittori oggi conosciuti come Patrizia Emilitri e Sergio Cova”.

Sono nati così i primi racconti brevi della Bardi, che hanno ottenuto riconoscimenti quali la classificazione al terzo posto nel “Concorso Prader Willi 2006” e la menzione d’onore nello stesso due anni dopo, la segnalazione della giuria al “Premio Castelfiorentino 2010”, il diploma d’onore al “XX Premio Città di Pinerolo” 2009 e altri.

 La voglia di scrivere un romanzo è venuta all’autrice solo tre o quattro anni fa, e, nel 2013, è uscito “Alla ricerca di Azzurra”. “Un giallo più soft dei “Vicoli stretti di Poggio Sant’Elvio” – racconta – una vicenda in cui non c’era un solo omicidio, mentre in questo mio secondo libro ce ne sono ben sei!”. E nei romanzi, come nei racconti, emerge il fil-rouge della scrittura, ovvero la amiglia e le relazioni tra i suoi componenti e, in particolare nell’ultimo giallo, l’amore in tutte le sue declinazioni.

La Bardi delinea con abilità le figure del libro. Le crea a partire dal nome; nasce così un personaggio nel quale lei stessa si immedesima, vivendo delle sue caratteristiche e sensazioni. Un personaggio che sembra prendere vita e il lettore lo vede muoversi e lo sente pensare. Sono proprio queste figure, principali e secondarie, ad accompagnarlo nella scoperta di una trama sempre più fitta di sentimenti e azioni, di ferite inferte e di incomprensioni, di debolezze e di abusi.

Al centro di tutto c’è una famiglia declinata al femminile: una madre rimasta sola e le sue cinque figlie. Sei donne molto diverse l’una dall’altra, ma legate da un fortissimo amore. “Inizialmente volevo raccontare i loro desideri, la loro voglia di vivere e le loro sofferenze – spiega la Bardi – ma mi sono lasciata guidare dai personaggi e la trama ha preso vita da sola, diventando un giallo”.

 Un giallo che trova la sua ambientazione psico-fisica tra i vicoli stretti di Poggio Sant’Elvio: questi vicoli sono anche lo spazio ristretto nel quale riesce a compiersi un dramma. Leggiamo di una cittadina immaginaria che è anche tutte le cittadine possibili, anch’essa protagonista nella sua quotidianità, anch’essa nata e cresciuta con il romanzo. Uno dei racconti scritti anni fa dalla Bardi, “Il casolare di Dafne”, è diventato il prologo della vicenda, un prologo d’impatto, con un ritmo intenso che rallenta, ma solo per poco, nelle pagine successive dove incontriamo la mamma Brenda che cucina e pensa alla sua famiglia. “Io ho vissuto per le mie figlie, ho rinunciato a tutto per loro, e nel frattempo il mondo è cambiato e non me ne sono accorta”. Le sorelle Capinere si riuniscono periodicamente per confrontarsi, raccontarsi e sostenersi. “Quelle riunioni mensili erano il nostro sfogo. Io e le mie sorelle ci facevamo un obbligo di esserci. Ci raccontavamo tutto, ci confermavamo la promessa che mamma sarebbe stata tenuta fuori da tutte le preoccupazioni che la vita poteva riservarci”. Le sorelle, quindi, mentono per proteggere la mamma che, a sua volta, fa finta di credere a queste bugie per amor loro. Leggiamo di una donna determinata, pronta a mentire per realizzare i suoi desideri, che soffre delle sofferenze del figlio. Incontriamo una sorella che ama con tutta se stessa ed è pronta a umiliarsi perché pensa di aver avuto un uomo troppo bello e bravo per meritarlo. Ci sono una donna che dice alla mamma di essere attrice di teatro, mentre a teatro fa la sarta, ancora una professionista nello studio delle erbe che viene vessata sul posto di lavoro e, da ultimo, una figura particolare: la sorella che ha sbagliato per una voglia di rivalsa e che ha pagato con il carcere, ma ora è psicologa e consolatrice di tutte le altre. Un universo al femminile variegato e, accanto alle Capinere, delle figure maschili non sempre vincenti e delle amicizie che nascondono prevaricazione e tradimento. E quando i delitti si compiono, il lettore non condanna del tutto l’assassino, riesce quasi a capirlo.

Nei “Vicoli stretti di Poggio Sant’Elvio” c’è molto: un racconto descrittivo e un giallo avvincente. Oltre ai sentimenti c’è anche tanta ironia: quella che fa scegliere all’assassino delle armi molto particolari per commettere i suoi delitti – “La cosa che salta agli occhi è che sono stati tutti uccisi con qualcosa di inerente alla loro professione o al loro hobby” – ma anche un’ironia che ci fa sorridere. E la consapevolezza finale: “L’ho fatto per loro… Volevo proteggerle, ma non l’avete capito. Nessuno ha capito niente”. E lo sguardo corre ancora sui tetti di Poggio Sant’Elvio.

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