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Garibalderie

LE SCUSE NON DOVUTE

ROBERTO GERVASINI - 14/11/2014

4novembreNata nel 1894, figlia di contadini che sopravvivevano bene, diplomata maestra in collegio a Como perché a Varese le scuole magistrali ancora non c’erano, Giulia Gervasini è stata maestra elementare a Sant’Ambrogio di Varese per quarantadue anni.

Ogni anno, giusto il 4 novembre, tornano in mente le sue parole: “….ma che festa può esser questa per noi, del 4 novembre? Domenico vinto dalla febbre spagnola; Luigi disperso sul Carso; Angelo cieco per lo scoppio di una mina a ventidue anni, grande invalido di guerra”.

Erano i suoi fratelli.

Così, dopo un triste 4 novembre 2014, risuonano ancora più amare le parole della zia Giulia.

Triste per la giornata di pioggia; triste per la cerimonia ufficiale, senza discorsi, con gente che pareva esser presente per dovere d’ufficio e nessun sentimento; per qualche leggerezza di troppo nelle parole e nei gesti di chi stava dietro un tavolo piuttosto che in galleria al Teatro di Piazza della Repubblica.

Pennacchi, labari, fanfare: si son succeduti i soliti rituali ma è l’atmosfera che non piace e che riduce tutto a vuota cerimonia ripetitiva che ha perso significati perché in questo benedetto Paese si è forse smarrita la memoria e quindi la dimensione degli eventi e le tragedie infinite ad essi legate e che non son cessate, nel caso, col 4 novembre del 1918.

Il corteo dall’Arco Mera a Piazza della Repubblica si è trasformato in un fuggi fuggi sotto la pioggia, tra un portico e l’altro, con una corsetta a zig zag tra frettolosi automobilisti. Uno spettacolo indegno : non si poteva non andare col pensiero ai mesi di gelo nelle trincee, alle malattie, ai dolori di fanti gettati allo sbaraglio da generali dementi.

Se il corteo è stato questo, senza che nessuno avesse comandato un “ rompete le righe”, a teatro è accaduto di peggio. Qualcuno, per altro stimato e benvoluto, ha avuto anche l’ardire di chiedere scusa ai ragazzi, oltre ottocento, chiamati giustamente a partecipare. Si è sentito il bisogno di chiedere a loro scusa per “averli disturbati”, coi loro insegnanti, sottratti all’attività didattica istituzionale. Esser presenti ed ascoltare non è forse lezione di vita, di storia, di atroce morte?

Ma chi ha chiesto scusa a Domenico, a Luigi, ad Angelo, ai seicentomila morti, ai due milioni di invalidi, alle vedove, ai figli, ai padri, alle madri? Vien voglia di urlare. No signori, a questi sbarbati che si inventano anche il battimano a ritmo cantando l’Inno di Mameli come se si cantasse la marcetta di Biancaneve e i sette nani o che stanno seduti a trafficare col cellulare, non possiamo porgere scuse. Meglio lasciare ‘sta gente a scuola, ignara, perché a diciotto anni si dovrebbe aver una pallida idea di dove si è, perché si sta in quel luogo, cosa sta accadendo, altrimenti si è già persi.

Noi di Varese per l’Italia 26 maggio 1859 alla fine ci siam guardati, ci siamo rialzati ed abbiamo abbandonato la cerimonia.

Con la bandiera tricolore sulle spalle, avviati verso via Indipendenza, è arrivata la ciliegina sulla torta dell’infausta giornata. Il solito imbecille che col tricolore si pulirebbe le terga ha sentito il bisogno di fare una battuta spiritosa con l’amico fermo sulla porta del negozio di fronte.

 “ …. non sapevo che oggi giocava l’Italia, com’ è finita?”.

 “È finita con dieci milioni di morti, imbecille!” è stata la risposta.

 Lo spiritosone non ha avuto Domenico, Luigi ed Angelo al fronte. Che tristezza. Che povera gente.

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