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Cultura

UN’EBREA ALLE SOGLIE DELLA CHIESA

LIVIO GHIRINGHELLI - 21/11/2014

Simone-WeilProtagonista del pensiero filosofico nella prima metà del Novecento, originale nel concepire l’atto creativo di Dio come decreazione, una sorta di limitazione della sua divinità per lasciare spazio alla libertà dell’uomo e convertita, da ebrea di origine, a un cristianesimo venato di sofferenza, ai piedi della Croce, religione degli schiavi per eccellenza, degli oppressi, degli ultimi, degli sventurati, ma non compatibile con la Chiesa come istituzione, Simone Weil (1909-1943) ne rimase sulla soglia senza battesimo.

 Nella “Lettera a un religioso” del 1942 affermava: la Chiesa ha incorporato la concezione ebraica di Jahvé, adorando il Dio degli eserciti e della potenza – fondamento della civiltà occidentale – e in ciò rinnegando la scelta fatta da Cristo di rinuncia al potere. La religione domina più che emancipare i credenti. Ricollegandosi a un filone della mistica ebraica del Cinquecento (con Isaac Luria) Simone Weil al ritrarsi di Dio, come per volontario esilio, per cui questo mondo ne sperimenta tragicamente l’assenza, fa corrispondere un’esperienza di pienezza, temporanea, nei soli attimi di grazia, sinché la necessità e la forza non prendano il sopravvento. “Il posto di Dio in questo mondo, del soprannaturale, è un infinitamente piccolo, che però si dischiude a un altro ordine di rapporti, all’aspirazione al bene e alla giustizia”. Bisogna annientare l’io per fare spazio agli altri e ad altro da sé.

Altri suoi principi: finché un essere umano non è stato conquistato da Dio, non può avere fede, ma solo una semplice credenza; la grandezza suprema del Cristianesimo viene dal fatto che esso non cerca un rimedio soprannaturale contro la sofferenza, bensì un impiego soprannaturale della sofferenza. La ricerca della verità sulla terra è ricerca di Dio. Qualsiasi essere umano, anche se le sue facoltà naturali sono pressoché nulle, penetra nel regno della verità riservato al genio, purché desideri la verità.

Simone Weil nasce a Parigi il 3 febbraio del 1909 da Bernard, affermato medico e da Salomea Reinherz (nota con il nome di Selma), nata in Russia da genitori galiziani, ebrei colti non osservanti. Soffrirà di una salute incerta per tutta la vita. Iscritta al Lycée Fénelon dopo ripetuti spostamenti di scuola, palesa un rendimento incostante. Dimostra di apprezzare particolarmente il pensiero di Descartes, scegliendolo come tema del suo diploma: Science et perception dans Descartes, ma ama altresì Platone e Kant. È con Alain (Emile –Auguste Chartier, 1868-1951) che ha inizio la sua vera e propria riflessione filosofica. T

Terminati gli studi all’Ecole Normale Supérieure comincia a insegnare fino al 1938 filosofia in diversi licei di provincia. Già a Le Puy-Velay nell’Alvernia scende in piazza al fianco dei disoccupati della città, continua a partecipare alle manifestazioni di protesta, distribuisce il proprio stipendio tra i dimostranti. Scrive su diversi giornali, sulla rivista “La révolution prolétaire” e si impegna nell’attivismo politico. Del 1933 è l’inizio dell’incontro con la rivista “La critique sociale” del dissidente marxista Boris Souvarine, onde le critiche evidenti alla politica di Stalin per il suo totalitarismo e la progressiva burocratizzazione delle strutture di potere. Non è permesso sacrificare l’individuo alla collettività. Decide di conoscere al meglio la condizione degli operai e il 4 dicembre 1934 viene assunta come fresatrice in una fabbrica metallurgica, dopo aver lasciato l’insegnamento.

Scrive prima il suo testamento politico, le “Riflessioni sulle cause della libertà e dell’oppressione sociale”. Le considerazioni relative a questo periodo confluiranno nella raccolta “La condizione operaia”, pubblicata postuma nel 1951. Si reca poi in Portogallo per vivere alla maniera dei poveri pescatori locali. Tornata a insegnare a Bourges, decide di partecipare attivamente alla guerra civile spagnola tra le file dei repubblicani nella colonna anarchica Buenaventura Durruti, ma vi rimane pochi mesi. Nel 1937 compie un viaggio in Italia e nella Cappella di Santa Maria degli Angeli in Assisi prova le sue prime esperienze mistiche.

Allo scoppio della seconda guerra mondiale, di fronte allo scatenarsi della Germania nazista, viene ad abbandonare le sue convinzioni pacifiste. Non può ormai insegnare a causa delle nuove leggi razziali, è arrestata perché colta a distribuire volantini contro il governo collaborazionista di Vichy. Trascorre un periodo come lavorante nella fattoria di Gustave Thibon, filosofo contadino che predica il ritorno alla natura (per lui la società si deve fare portavoce di valori eterni come il Vero e il Bene, luoghi del Trascendente in questo mondo). Nel dicembre del 1942 parte per l’Inghilterra con lo scopo di fare parte di France Libre, l’organizzazione dei resistenti in esilio. Una intensa produzione scritta e l’eccessiva dedizione al lavoro fiaccano definitivamente la tempra di Simone e, contratta la tubercolosi, muore nell’agosto del 1943.

Simone Weil è stata altresì una delle allieve considerate più brillanti del filosofo esistenzialista René Le Senne, che aveva i suoi fondamenti nello spiritualismo francese e nell’idealismo tedesco. Rispetto ad Alain che afferma il primato della volontà che si concretizza nell’azione, Simone sposta l’accento in direzione del lavoro, grazie al quale il soggetto esercita un controllo su se stesso e sulle proprie passioni ed opera sulla realtà che lo circonda.

Già nella tesi di laurea su Descartes compie una rivisitazione del percorso dal dubbio al cogito, facendo luce sulla centralità del lavoro: al penso, dunque sono, si sostituisce la formula “posso (agire), dunque sono”. Nelle mani dei lavoratori è contenuta una ricchezza di conoscenze scientifiche, di cui vanno resi consapevoli. Nelle “Riflessioni” citate la Weil si confronta criticamente col marxismo, rifiutandone la fiducia ossessiva nel progresso e la dinamica ineluttabile delle forze produttive. In Russia poi l’abolizione della proprietà privata non ha posto fine all’alienazione operaia. V’è poi il pericolo che in una fabbrica razionalizzata l’uomo venga privato d’iniziativa, di una creatività personale.

Altro tema caratterizzante è quello della sventura (malheur), che comporta anche uno sguardo di disprezzo sociale, che interiorizzato dallo sventurato lo porta a vedersi come un emarginato, un rifiuto della società. Può essere però anche il momento della ricongiunzione a Dio. Riferendosi alla condizione femminile la Weil non rivela alcun interesse per il femminismo di moda, ma osserva ironicamente che una donna bella rischia facilmente di identificarsi con la sua immagine riflessa nello specchio, come di interiorizzare uno sguardo maschile mortificante.

La via della bellezza è invece come un itinerario verso il divino, sempre che Dio discenda verso il soggetto. Qui interviene l’ammirazione per Platone, considerato il padre della mistica occidentale. Il bello permette un’intermediazione tra la nostra sensibilità e la trascendenza divina (vedansi i “Quaderni” e la tragedia incompiuta “Venezia salva”- 1940). Mentre i congiurati concepiscono la bellezza della città nella prospettiva di un sogno di potenza (il vincitore vive il proprio sogno, il vinto quello altrui), il protagonista Jaffier, uscendo dal sogno di conquista, sconfigge la componente immaginaria implicita nella forza, rivendica l’attenzione per la realtà.Durissima è nei “Quaderni” la critica mossa all’immaginazione, in quanto vive solo nella prospettiva dell’io.

Con “L’Iliade poema della forza” (1939-1941) Simone Weil scorge nella guerra di Troia l’origine deprecabile della violenza dell’Occidente. Sullo sfondo l’idolatria totalitaria di Hitler. Il rimedio sta nell’azione non agente: compromettersi con il male legato all’uso della forza senza abbracciarne la logica.

“La prima radice” (L’enracinement), scritto a Londra nel 1942-43, contrappone al diritto la sfera superiore della giustizia (sullo sfondo gli obblighi verso il destino eterno dell’essere umano). Lo sradicamento del passato è una malattia dell’anima, che tronca i legami colla tradizione, la spiritualità; la tradizione è un passato che vive e si trasmette nella cultura popolare; il processo di accentramento degli Stati ha purtroppo distrutto le comunità più piccole, le culture locali con la loro autenticità. Il singolo va salvaguardato dall’invadenza della collettività, ma anche dalle tentazioni dell’individualismo moderno. Le radici affondano nella terra e il passato è quello dei vinti, delle rivoluzioni sconfitte, della culture cancellate, del Dio debole inchiodato alla Croce. La civiltà attuale va rifondata sul gioco delle disparità e delle differenze che arricchisce. Conclusione politica: non si deve fare dell’uguaglianza un assoluto e capire che il bisogno di autorità non è meno importante.

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