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Cultura

MARIO SIRONI OLTRE L’IDEOLOGIA

PIERO VIOTTO - 19/12/2014

A Roma al Complesso del Vittoriano è stata inaugurata e resterà aperta fino all’8 febbraio 2015, una grande mostra di Mario Sironi (1885-1961), affiancata da un prezioso catalogo, edito da Skira, curato da Elena Pontiggia, che non solo ha steso il saggio più importante ma ha commentato le singole opere, seguendo l’artista nelle diverse fasi della sua attività creativa dal Simbolismo, attraverso il Futurismo fin al Novecento, una corrente di ispirazione fascista, che aveva in Margherita Scarfatti, un’ebrea, amante del Duce, la sua musa, e analizzando la drammatica conclusione di questo percorso creativo nei quadri dedicati all’Apocalisse.

Confesso che ho esitato a presentare questa mostra, diffidando di un arte che a un certo momento si pone al servizio di un regime politico, ma poi riflettendo sui dati anagrafici dell’artista, guardando le opere in esposizione che manifestano una continuità di modi espressivi, ricordando che anche Boccioni e Severini, anche Ungaretti, e Papini ebbero simpatie per il regime, mi sono convinto che la vera arte trascende l’ideologia e va oltre alle stesse convinzioni politiche dell’artista.

Un episodio biografico mi ha confermato in questa valutazione. Il 25 aprile del 1945 Sironi, che ha aderito alla Repubblica sociale di Salò, è fermato a un posto di blocco e rischia di essere fucilato, lo salva lo scrittore Gianni Rodari, partigiano comunista. D’altra parte Elena Pontiggia inizia il suo saggio scrivendo: “Sironi è stato mussoliniano e ha aderito fino all’ultimo al fascismo (non alle leggi razziali, che non ha mai condiviso). Tuttavia, per parafrasare Vittorini, non ha mai suonato il piffero della rivoluzione fascista perché la sua arte, intrisa di dramma, era più funzionale alla verità che alla propaganda”.

L’arte di Sironi con i suo colori cupi, le grandi volumetrie delle figure umane che occupano quasi tutto lo spazio, è una lunga riflessione sulla drammaticità della vita umana considerata nel mondo del lavoro (il pescatore, il contadino, il pastore, l’architetto…) e del tempo libero (il ciclista, l’arlecchino, la ballerina). I suoi paesaggi con i cieli scuri sono come un’analisi sociologica della solitudine dell’uomo nella società contemporanea (la cattedrale, il molo, lo scalo…). Anche le relazioni famigliari sono immerse in questo clima di malinconia. La stessa rappresentazione della chiesa con il battistero e il campanile, che a ben guardare rimandano a Santa Maria del fiore a Firenze, sono immerse nel buio di una città senza lampioni (penso a Magritte), in un cielo nero, senza stelle (penso a Van Gogh).

La curatrice del catalogo accosta queste tele alle opere di Rouault, perché anche nelle figure e nei paesaggi dell’artista francese troviamo questi colori scuri e queste forme bloccate. Ad esempio nel commentare un quadro del 1962 “Donna con bambino”, con case, albero e figure umane scrive,:“ L’opera è immersa in un blu introverso, non distante dalle monocromie fredde di Rouault. Intensa, poi, è la matericità della stesura, che utilizza la pennellata grassa anche in funzione luministica”.

Ma in Rouault la drammaticità della condizione umana si risolve nella speranza cristiana, penso alle cinquantotto tavole del “Miserere”, mentre in Sironi si ripiega su se stessa al punto che l’artista, forse unico della storia dell’arte, giunge a dipingere “Il mio funerale” (1960) rappresentando un piccolo corteo funebre che passa davanti ad un muro molto alto con una sequenza di figure monumentali, tra le quali si intravede il saio marrone di un francescano. Questo artista schivo e introverso, che non amava le mostre e bisognava supplicarlo per avere qualche opera in esposizione, si trova a suo agio nella pittura murale, nei mosaici e nelle vetrate, dove può in grandi spazi accostare monumentali figure solitarie.

Per Sironi la pittura morale è anche un anche una questione ideologica, perché un muro non si può vendere o esporre, e tutti lo possono ammirare. Nel 1933 stende il “Manifesto della pittura murale” in cui scrive “La concezione individualistica dell’arte per l’arte è superata” e “La pittura murale è sociale per eccellenza” e alla Triennale di Milano chiama a eseguire opere monumentali De Chirico, Severini, Campigli, Funi e lui dipinge un affresco gigantesco (undici metri di lunghezza per dieci di altezza).

In mostra ci sono i bozzetti e i cartoni di queste opere, alcune delle quali ancora visibili nelle loro sedi, come l’affresco “L’Italia tra le Arti e le Scienze” nell’Università di Roma (1935), il mosaico “La Giustizia tra la Legge e la Forza” nel Palazzo dei tribunali di Milano (1939), la vetrata “L’Annunciazione” nella Chiesa dell’Ospedale di Niguarda (1939) nella quale un angelo molto più grande di Maria la illumina con il biancore delle sue vesti, mentre scende la colomba dello Spirito Santo.

Tra le poche opere di Sironi dedicate a temi specificatamente religiosi troviamo in mostra una tela dedicata a San Martino: il santo non solo dona metà del mantello al povero ignudo, ma tutto il mantello, restando nudo come lui, un’intuizione di artista ben rappresentata per il gioco dei colori delle figure imponenti, che dimostra come la carità non consista solo nell’ ”essere per gli altri” ma nell’ ”essere con gli altri” condividendone la condizione.

Nell’arte di Sironi c’è come una religiosità naturale attraverso il culto del lavoro e della famiglia, considerate come un impegno etico per l’uomo, ma che il regime nazionalista strumentalizza ai suoi fini politici. Molto interessante la tela del 1928 proprio titolata “La Famiglia” che la Scarfatti cosi commenta: “Drammatica è la sensazione stessa, sempre presente, del peso della materia, del peso intrinseco del volume, enorme, quasi schiacciante, che grava su tutto il mondo creato dal Sironi, e insieme esalta ogni sua figura anche di piccole dimensioni e proporzioni architettoniche a dignità di composizione monumentale”.

Sironi resta uno dei protagonisti più significativi della storia dell’arte italiana, proprio per la monumentalità del suo linguaggio espressivo, che non troviamo solo nelle opere del Novecento, ma che già appare nei momenti precedenti, Elena Pontiggia scrive Sironi “solidifica il Futurismo”, e anche negli ultimi anni con la serie delle “Moltiplicazioni” quando affianca, in maniera quasi informale, forme e volumetrie diverse o nelle tavole per l’Apocalisse, dove grandi massi rotolano a schiacciare gli uomini.

Bontempelli nel 1943 aveva scritto che la pittura di Sironi “è un Apocalisse immobile al di là di ogni possibile palingenesi”. Un arte drammatica che alla fine non poteva piacere al regime, perché questa monumentalità non è retorica, anche quando può sembrare apologetica, perché sottolinea la solitudine dell’uomo

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