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Storia

LA SHOAH VARESINA

FRANCO GIANNANTONI - 14/01/2012

Era la metà di novembre del 1943 e l’ingegner Ugo Russi, sessantacinque anni, un omino arguto, gli occhiali tondi cerchiati d’oro, ebreo triestino, vice direttore della Società Varesina Imprese Elettriche, quella che dava la luce alla città e faceva andare i tram e le funicolari, tutto lavoro e casa fra la bella villa di via Silvio Pellico alle pendici del colle Campigli e il palazzo liberty di viale Milano, non capiva per quale ragione dovesse mai fuggire. I tedeschi erano giunti a Varese da un paio di mesi, il 12 settembre per l’esattezza, senza trovare uno solo che gli sparasse contro un colpo di fucile, e le retate antisemite lungo la fascia di confine ad opera della Milizia Confinaria e della soldataglia austriaca del V° Grenzwache di Innsbruck erano diventate sempre più continue. Gli ebrei della Comunità del Nord Italia, Torino, Genova, Milano, Padova, Ferrara, Livorno, Mantova, Cuneo, Ravenna, puntavano in direzione di Varese sollevati dal fatto che da queste parti il passaggio verso la Confederazione Elvetica fosse più facile rispetto al Novarese, al Comasco e alla Valtellina. C’erano montagne meno alte e meno aspre, il rigagnolo del Tresa era quasi sempre a secco.
L’ingegner Russi non era uno sprovveduto né tanto meno un amante del rischio. Aveva una famiglia numerosissima, la moglie Carolina Stolfa, di fede cattolica romana, ben dieci figli “ebrei misti” (nove femmine ed un maschio) perché l’undicesimo, Piero, il maggiore, era morto precipitando da uno sperone di roccia della Valganna pochi mesi prima mentre si stava allenando per ben altre imprese alpinistiche. In verità l’ingegner Russi si stava comportando come migliaia di altri ebrei (l’Italia ne contava solo quarantacinquemila, eppure per Mussolini era diventato un problema vitale eliminarli) da sempre “assimilati” nel corpo della Nazione che avevano servito sin dall’unità d’Italia, poi nelle varie guerre, compresa quella con l’Austria, e poi con il fascismo meritando medaglie, riconoscimenti e posti di responsabilità (Jung nel 1936 fu addirittura ministro delle Finanze). Assimilati e fascisti. E allora perché pensare di dover far le valigie per non correre il rischio di essere arrestati e deportati nei lager del Terzo Reich? Semplice. Gli ebrei in fondo avevano perso per strada, lungo i decenni, il senso dell’identità di appartenenza ad una razza diversa e, se lo sapevano, non ne avevano fatto un problema di separazione.
La storia è complessa e assieme drammatica. Lo spunto per raccontarla viene da un evento luttuoso. Giorni fa è morto all’Ospedale di Varese all’età di ottantasette anni Renzo Russi, ingegnere civile, splendido interprete con l’architetto Ovidio Cazzola dell’edilizia popolare di cui ha lasciato a Varese segni profondi e che non si fa più, malgrado sia necessaria, da una quarantina d’anni. Renzo, uno degli undici figli di Ugo, era stato il primo a dover prendere il largo perché era del 1925, una delle classi che la repubblica del duce stava arruolando per l’esercito di Graziani, il “macellaio di Addis Abeba”. Renzo non ne voleva sapere di servire la RSI e il 23 settembre 1943, accompagnato dal padre, dopo un primo tentativo andato a vuoto, si era presentato nella zona del Gaggiolo dove, con la comprensione di un milite della Guardia di Finanza, la sola arma antifascista del regime, era riuscito a varcare la rete con i campanellini (la famosa “ramina”) che, al primo stormir di ali di un passero di passaggio, si metteva a suonare dando l’allarme, e a mettere piede in Canton Ticino. Era finalmente al sicuro. Salvo.
L’ingegner Ugo era tornato a casa rasserenato per l’impresa di Renzo e aveva continuato a lavorare. I tedeschi erano i padroni assoluti della città. Regnava l’ordine. Avevano occupato decine di ville dove avevano sistemato i loro Comandi, villa Mylius, villa Zanoletti, villa Craven, villa Assman, villa Luzzato, villa Locatelli e tante altre. La loro maggior preoccupazione era per le industrie che non cessassero di tenere elevata la loro produttività, a cominciare da quelle definite “protette” perché fabbricavano aerei e armi per il loro Paese. In second’ordine badavano ai confini perché non si formassero bande partigiane nelle vicine boscaglie e perché gli ebrei (“i maledetti figli di Giuda”, come li aveva sprezzantemente definiti il console Marcello Mereu della Confinaria “Monte Bianco” di stanza a Malnate) non si azzardassero a varcare le frontiere. In realtà la bufera stava spazzando l’aria. Quando da Trieste – dove Franz Stangl, il “boia di Treblinka” e Christan Wirth, “il Cristiano selvaggio”, l’inventore dei forni a gas della Risiera di San Sabba, avevano dato inizio al massacro della Comunità locale – era giunto trafelato a Varese l’ingegner Arrigo, fratello di Ugo Russi, con la notizia che per gli ebrei il tempo era scaduto, il maturo vice-direttore della “Varesine” era stato costretto a prendere quella decisione che aveva sempre rifiutato. Partire in tutta fretta. Fra l’altro, a poche decine di metri dalla villa Russi c’era, in via Campigli, la residenza di Albert Lange, il “Gauileter” di Varese, con tanto di pizzo e divisa nazista, rappresentante nella vita civile di una fabbrica tedesca di scartamenti per rotaie ferroviarie, segretario onorario da anni della Sezione del partito hitleriano di Varese. Un personaggio temuto che all’arrivo della prima colonna di tedeschi a Varese si era fatto trovare pronto ad accoglierli al Palazzo del Littorio di Casbeno e a far da filtro con le autorità fasciste. Un altro elemento di cui i Russi dovevano temere.
La grande fuga fu organizzata alla perfezione, in due tronconi, dopo aver consultato e ottenuto aiuto da alcuni coraggiosi sacerdoti. Il “basso clero” (parroci di montagna, Saltrio, Clivio, Viggiù, Voldomino, Ardena, per fare qualche esempio) dava sempre una mano mentre nella stessa stagione “l’alto clero” trescava col regime. Per prima partì la signora Stolfa con le figlie minori, ragazzine dai cinque agli otto anni, Claudia, Laura, Luisa ed Annamaria. Il gruppo fu ospitato inizialmente in un Istituto Religioso del basso Milanese poi, nel dicembre del ’43, c’era stato il trasferimento nel Comasco. Un’impresa sul filo del rasoio, fra paure e continui ripensamenti. Il passaggio decisivo per toccare la meta svizzera era avvenuto lungo il Monte Olimpino, una classica via battuta dagli ebrei.
Il gruppo con l’ingegner Ugo Russi con i figli più grandi, Maria Grazia, Paola, Rosanna, Lucia, Franca, in treno raggiunse il paesino di Berbenno-Ponte San Pietro in Valtellina, poi si trasferì in Val Mesolcina nell’Istituto retto dal sacerdote varesino don Folci, cugino di monsignor Carlo Sonzini, fondatore delle “Ancelle della Carità” di San Giuseppe Lavoratore. La famiglia Russi nel suo secondo spezzone trascorse qualche tempo in serenità. Una ragazza Russi collaborava nell’insegnamento, un’altra, Rosanna, sfidava il potere nazifascista, andando addirittura in treno sino a Milano per frequentare l’Università Cattolica, dare esami e seguire le lezioni. All’improvviso, qualcosa cambiò proprio mentre Paola, colpita da una polmonite fulminante, moriva, aggiungendo dolore al dolore.
Per primo lasciò l’Istituto di don Folci l’ingegnere Ugo che, con l’aiuto di alcune “guide” di Tirano, legato su una slitta, venne trascinato sulle nevi del versante retico della montagna sino a Campocologno e poi da lì nella confinante Val Poschiavina. Salvo. Per le figlie, affidate ad altre guide, il cammino fra i boschi fu faticoso e pieno di paure. Me lo rievocò anni fa la signora Rosanna Russi, vedova dell’ingegner Lotti, con parole emozionanti. Ma alla fine anche per loro la fuga ebbe fine.
I due gruppi della famiglia Russi da quel momento furono internati con migliaia di altri connazionali nei campi allestiti un po’ in tutta la Svizzera. Le ragazze riuscirono a studiare sostenute dalla bontà di alcune famiglie del posto. Altre collaborarono nei lavori domestici. Tutti i Russi, compreso Renzo, riuscirono alla fine a ritrovarsi nel Vallese. Erano i primi mesi del 1945. La libertà stava arrivando a grandi passi. Mi confidò un giorno Renzo: “Debbo tutto alla Svizzera e ai suoi abitanti. Fummo, pur nelle privazioni, uomini liberi, al sicuro. Fummo aiutati e rispettati. Non potrò mai dimenticarlo”.
In Svizzera dei quarantacinquemila fuggiaschi italiani, fra militari e civili, sei-sette mila erano ebrei. Non tutti riuscirono a mettersi in salvo. Centinaia furono catturati durante il loro “viaggio della speranza” lungo il confine, spesso traditi da coloro che avevano prima pagato per farsi accompagnare, “spalloni” e “guide” già d’accordo con i nazifascisti che, ad un passo dalla rete, li abbandonavano nelle braccia dei militi della RSI e dei loro alleati del Reich. Pagati due volte, autentico sterco del diavolo: dalle vittime e dagli aguzzini. Altri vennero sorpresi nelle loro case o negli ospedali. A Varese, Leone Tapiero, un ex ufficiale dell’esercito, nel 1938 messo brutalmente ai margini dalle leggi razziali; Ada Provenzali Bianchi, una bella signora mantovana, moglie del direttore del Calzaturificio di Varese ragionier Paolo Bianchi, appartamento in via Piave; a Gallarate la professoressa Clara Pirani, moglie del preside del Liceo pareggiato professor Francesco Cardosi rimasto solo con tre bimbe piccole. Tutti “ebrei misti” arrestati dai fascisti repubblichini in base ad una legge che neppure i tedeschi avevano fra il loro bagaglio di norme criminali, Tapiero, Provenzali e Cardosi furono “gassati” al loro arrivo ad Auschwitz. Altri vennero arrestati nei reparti ospedalieri o nella Casa di Cura “La Quiete” al termine di proditorie retate con la polizia italiana, stretta collaboratrice. Così nel caso della giovane veneziana Paola Sonino, ventinove anni, che nel timore di poter cadere nelle grinfie dei suoi persecutori, era stata dai Riva, proprietari svizzeri della clinica, “camuffata” da infermiera. Non bastò. Arrivarono un bel giorno da Trieste Franz Stangl con Mauro Grini, alias Mauro Grun, ebreo passato al nemico, che la arrestò e la consegnò agli sbirri del “binario 21” della Stazione Centrale di Milano, destinazione l’inferno di Auschwitz dove, appena arrivata, “passò per il camino”.

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