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Cultura

SOLITUDINE DEL POETA

MANIGLIO BOTTI - 17/04/2015

cardarelli“Er bronchetto der bisteccaro”, come dire “Il figlioletto handicappato di quel poverocristo”. Lo chiamavano così, a Tarquinia, il giovane Vincenzo Cardarelli, il cui nome poi non era neanche Vincenzo ma Nazareno e il cognome Caldarelli – non Cardarelli –, come quello della mamma Giovanna, perché era un figlio illegittimo. “Er bronchetto” per via di una menomazione al braccio sinistro che come unica fortuna gli portò il fatto di non essere preso al servizio militare – lui che era nato nel 1887 – e quindi di scampare alla prima guerra mondiale.

 Quella di Vincenzo Cardarelli, a leggerla, sembra la vita di un personaggio di Dickens. Sparita dalla famiglia la madre, il ragazzo rimase con il papà, Antonio Romagnoli, un uomo che tirava la paga per il lesso e che gestiva la mensa della stazione di Tarquinia. Mai di Nazareno-Vincenzo il padre avrebbe voluto fare uno studioso o un letterato, tanto meno un poeta o uno scrittore; un commerciante forse; nel complesso un uomo mediocre ma un po’ più attaccato al soldo di quanto egli stesso fosse stato. Invece, intorno ai vent’anni, il ragazzo se ne andò di casa e cominciò a percorrere la sua strada, sempre in grande solitudine però, a parte brevissimi momenti.

La storia di Vincenzo Cardarelli – stando a chi scrive uno dei più grandi poeti del primo Novecento italiano – comincia da qui. Autodidatta, conoscitore dei classici, correttore di bozze e poi giornalista, redattore e fondatore di importanti riviste di letteratura (La Voce, Il Marzocco, La Ronda), amico – ma forse questa è una parola grossa – e frequentatore dei più importanti personaggi dell’intellighenzia letteraria dell’epoca, nitido prosatore tanto che nel 1948 con “Villa Tarantola” arrivò a vincere, senza saperne trarre vantaggi, una delle prime edizioni del Premio Strega.

Vincenzo Cardarelli è stato – ed è – un grande poeta. Da subito, un poeta che per il suo modo di vivere, se non fosse esistito un uomo così lo si sarebbe dovuto inventare: sempre col cappottone indosso, d’inverno e anche d’estate. Non una casa sua ma camere d’albergo e di giorno il tavolino di un bar nelle vie famose di Roma, a discorrere con gli amici, più spesso in silenzio a guardare passare la gente.

Anche di questo suo particolare modo di esistere, un po’ ombroso, si hanno diversi aneddoti. Uno dei più noti riguarda la morte dello scrittore Vitaliano Brancati, che Cardarelli conosceva e amava. Al funerale di Brancati gli altri amici – Patti, Flaiano, De Feo… – commentavano costernati la vicenda: era la fine di settembre del 1954 e Brancati non aveva neanche compiuto cinquant’anni; Cardarelli in silenzio in un angolo, il cappello in testa, le mani affondate nelle tasche del cappottone. A un tratto sbottò: “Ma non poteva essere morto Moravia?”.

 Vincenzo Cardarelli è stato uno dei più importanti conoscitori di Giacomo Leopardi, specie il Leopardi dello Zibaldone e delle Operette Morali. Di Leopardi ha saputo cogliere soprattutto lo spirito e, forse, interpretare la solitudine. Ed è ciò che si legge anche nella sua poesia, là dove appare l’osservazione del volgere delle stagioni e del passare degli uomini e delle donne. Pensiamo al alcune delle sue poesie: Autunno, Gabbiani; pensiamo ad Adolescente, ad Ajace Telamonio. Dove non si sa in che modo cominci la mestizia e finiscano l’ineluttabilità e la rassegnazione.

 Di questo poeta silenzioso offriamo qui la lettura di una sua lirica coinvolgente, e forse poco conosciuta: Incontro in circolare, una poesia in cui immaginiamo un Cardarelli osservatore attento, mai distratto, eppure soltanto sfiorato dalla bellezza e dalla vita.

 “Alta, bruna, fiancuta, / sotto un soprabito disadorno, / la bella ragazza confusa / nella misera folla / d’una vettura circolare interna, / pareva sorda a ogni affanno. / Ferma sul corridoio, un po’ appartata, / le sue gambe di statua / sostenevano gli urti / come solido ponte un fiume in piena. / Non gloria in lei spirava, / non frenesia di vita o giovinezza, / ma una decisa e forte indifferenza / luceva nei suoi occhi assorti e aguzzi. / Era di quelle / romane bellezze / che son rare anche a Roma, / dove mai non s’incontrano / senza un muto stupore. / Era un grande segreto / della vita di Roma / che m’appariva in luogo men propizio, / nella forma più degna. / Donde veniva, ove andava / la bella romana chiomata / di lucidi e ricci capelli? / Quale mestiere o cura attribuirle? / Spostandosi verso l’uscio / trovò qualcuno con cui discorrere / famigliarmente. / E mi volgeva le spalle / alte com’ali tese. / Al Colosseo discese leggermente, / scomparendo ai miei occhi, oimè, per sempre”.

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