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Stili di Vita

LA MIA VECCHIAIA

VALERIO CRUGNOLA - 30/04/2015

200427889-001Invecchio.

Ogni giorno faccio i conti con questo pensiero.

Mi osservo e scruto come farebbe un ipocondriaco. Di per sé l’invecchiamento è una malattia immaginaria ma particolarmente invasiva. Abituato ad assaporare ogni sfumatura di gusto della libertà, mi scopro, se non proprio inerme, certamente poco attrezzato davanti a un processo lento, di cui posso contenere gli effetti, ma inesorabile. Ogni tanto mi accorgo di essere sceso di un altro gradino, di sentire il bisogno di aggrapparmi a una ringhiera, proprio come mi accade scendendo delle scale, come quelle di casa o di una stazione della metropolitana, in cerca di un appoggio sicuro. La mia prima risposta è quella di cercare una sorta di protezione. Altri si lasciano andare, scivolando nell’abulia, oppure rimuovono il loro invecchiare, rifiutandosi di prenderne atto.

Sono stato a lungo affetto da bulimia, dall’ansia di vedere e conoscere tutto. Il corpo mi è stato docile complice per quarant’anni. Un primo infarto ha solo limato le unghie a quell’ansia. Ora percepisco la forbice tra l’esuberanza non ancora sazia della mente e l’indebolirsi del corpo, l’esatto contrario di quanto accade normalmente nell’adolescenza, quando l’esuberanza del corpo stride con l’immaturità della mente dovuta alla povertà dell’esperienza. Soprattutto, colgo la difficoltà di riuscire, come nei momenti più intensi dell’età adulta, a sincronizzare di nuovo i due poli: poli apparenti, non reali, perché in verità la psiche, benché sia in grado di rappresentarsi come indipendente, è soltanto una funzione più evoluta della corporeità. A volte i messaggi del corpo sono spietati: abituato a lunghe escursioni in alta montagna, nove mesi fa mi sono occorse sei ore per salire e scendere da Induno al Monarco, una collinetta da nulla.

So la fatica, talora l’intollerabilità dell’accettare con la dovuta leggerezza il declino ineluttabile del corpo. L’ho notato già anni fa, da che non sono più riuscito a guardarmi allo specchio, se non sfuggendo l’insieme del viso, come durante la rasatura. Non ho mai difettato di autoironia, ma lì – davanti a un’immagine riflessa che stento ad accettare come la «mia» – ne manco totalmente. In cambio ho imparato ad apprezzare il valore della lentezza, il privilegio delle pause, di un tempo tutto per me di cui sono il sovrano assoluto. Non voglio dipendere, se non negli affetti prescelti e nelle relazioni elettive. Alcune volte vorrei lavorare ancora, facendo qualcosa di nuovo, non importa quanto retribuito, o assumermi responsabilità verso terzi; altre invece sogno di prendere l’auto e girarmi l’Europa, la mia patria, per un anno o più. Poi so che più di tanto non posso fare, ma non riesco a fare a meno di «accarezzare l’idea».

Ho imparato ad addestrare la mente a non seguire più certi suoi impulsi. Ho neutralizzato il desiderio di seduzione che affligge la nostra identità di genere, educandomi a deporre lo sguardo dai corpi femminili, a non mirarlo diritto negli occhi di una donna. Altri addestramenti ancora falliscono. Non so accettare che non ha senso vagheggiare una pluralità di impegni e progetti che non sono più in grado di sostenere, o affrontare una pluralità di responsabilità e promesse che non posso adempiere come un tempo, o mantenere l’antica capacità di lavoro e soprattutto di concentrazione, fosse solo per imparare qualcosa di totalmente nuovo, come una lingua straniera ignota, o per memorizzare i nomi prima sconosciuti di artisti, attori o registi. Il desiderio ha ridotto le sue pretese, ha imparato a rinunciare, ma non del tutto: cerca compensi e compensazioni più sublimati, più intellettuali, più esplorati, ma meno ardui per le mie forze e le mie risorse. Non è un male, anzi: senza desideri e progetti andrei alla deriva, o mi perderei in strategie di pura sopravvivenza, a tentoni, in melanconica attesa della fine.

In cambio, i tratti del carattere sono migliorati. Sono più mite, riflessivo, duttile e morbido. Resto intransigente dove serve, soprattutto sul piano morale, ma su quel che non sembra più così importante sono divenuto accomodante, a volte persino arrendevole. Da studente fui colpito da un verso da Ossi di seppia: «Vorrei essere scabro ed essenziale». Scabro non lo sono mai stato: ma l’essenziale si riduce sempre di più, ed è bello che sia finalmente così.

Non mi interessa più irrigidirmi su questioni che ancora in un tempo non lontano consideravo «di principio». Mi adatto agli altri più facilmente. Non fatico a recedere da un’opinione o un giudizio che scopro sbagliati, eccedenti o dettati da preconcetti. Semmai, provo fastidio davanti ai persistenti preconcetti degli altri, nei riguardi di chi seguita a leggere il mondo subordinandosi non alla mutata realtà delle cose, ma a un attaccamento identitario, che l’età per solito irrigidisce se non ce ne si libera per tempo. A volte esagero in senso opposto: tengo per me dei convincimenti per il timore di scoprirmi esposto alle fissazioni senili.

Dedico molto più tempo alle relazioni familiari, strette ed estese. Ho scoperto tardi – dieci anni fa, con la morte di mio fratello Luciano – quanto esse contino, specie per me che ho avuto una vita sentimentalmente poco stabile, indisciplinata e anarchica. Di rimando, preferisco frequentare i vecchi amici, spesso risalenti a tempi remotissimi, alla fatica di coltivare nuove conoscenze, di espormi a nuove frequentazioni. Gli amici – così mi dico – conoscono già i miei difetti, li hanno accettati per tanto tempo, c’è più calore e tutto viene da sé, nel solco di affettività, intese, sintonie e consuetudini consolidate. L’intimità di spiriti mi appaga più dell’intimità dei corpi. Antepongo gioie solide e durevoli a quelle momentanee e inconsuete. Nell’ultimo anno ho intessuto nuove amicizie, altre affinità, e mi arricchisco.

Apprezzo rivedere, rileggere, ritornare, riascoltare più ancora delle novità, che pure cerco. Resto un uomo curioso. Mi rapporto contraddittoriamente ai cambiamenti e alle generazioni ancora immerse, o prossime a immergersi in un flusso della vita da cui sono ormai escluso, se non per alcuni segmenti, come l’azione civica. Non è facile cercare di capire le dinamiche di un mondo di cui non vedrò l’esito. Mi viene più semplice riflettere sul passato. Qui l’autorità di Benedetto Croce mi viene in soccorso per convincermi che non faccio male: «Il legame col passato prepara e aiuta l’intelligenza storica, condizione di ogni avanzamento civile, e soprattutto assai ingentilisce gli animi; e mi è sembrato che ai nostri giorni non sia da spregiare nessuna forza, pur modesta e umile, che concorra a tal fine». Croce scriveva nel giugno 1915, immediatamente a ridosso delle tragiche, ma per molti illusi e altrettanti illusionisti di allora «radiose giornate di maggio».

Forse quella tragica lezione, il mancato «ingentilirsi degli animi» nelle fangose trincee di una guerra fratricida, ci dice che l’intelligenza storica da sola serve a poco se non è confortata dallo sforzo di decifrare realisticamente il corso delle cose e dalla prudenza e la cautela verso le incertezze e i rischi del futuro. La prudenza viene dagli ammaestramenti del passato, ma questi non servono a capire i processi in atto. I più li confezionano entro le antiche, consumate e inutili scatole, con indicibile pigrizia intellettuale.

 Non sono pigro, cercherò di non esserlo fino a che non si spegnerà l’ultimo neurone, ma l’impegno per capire è molto costoso, e anche le più buone intenzioni spesso si infrangono davanti al muro della fatica, della debolezza delle motivazioni. Ho interrotto la lettura del Capitale nel XXI secolo di Piketty attorno alla centesima pagina: temi che una volta erano «il mio pane». E non è che un esempio.

Il futuro mi preoccupa: non tanto il mio, quanto quello di Rebecca e Martino, i miei pronipoti. Sono pessimista per loro, anche se si affacciano al mondo da condizioni privilegiate per cultura e status sociale. La mia generazione ha molto da rimproverarsi, per questo. Abbiamo dissipato e mancato di concretezza, ma i prezzi li pagheranno altri: un sottile senso di colpa, in proposito, mi tormenta. Il bilancio della mia vita è buono, ma non nella sfera pubblica. Lascio un mondo molto peggiore di quello che ho trovato, e mi sento responsabile, non addebito la colpa ad altri, o ad astrazioni concettuali.

Per il mio futuro temo l’Alzheimer o altre gravi infermità, che mi condannerebbero a una vita non più degna. Vorrei una legge liberale, che accettasse il pluralismo dei valori anziché contrapporre un valore monopolistico a presunti «disvalori», e che consenta alle mie convinzioni etiche di scegliere se andarmene e come.

Sono un pensionato felice, ho ancora tante belle cose da fare e vorrei vivere a lungo. Ma l’idea che il prezzo da pagare sia il dover assistere alla scomparsa delle persone che mi sono care mi inquieta al punto che, a volte, mi convinco di dover desiderare di andarmene presto.

Ho scritto del mio invecchiare. Ciascuno ha avuto, ha o avrà il suo. L’indagine autobiografica preliminare è il cardine di qualsiasi riflessione sugli stili di vita che si proietta direttamente e immediatamente sul nostro «stare nel mondo». Non ha alcun senso che proponga un modello di ars senescendi. Ho ritenuto più utile mostrare i problemi che incontro io, perché altri indaghino i propri e cerchino da sé una risposta all’altezza dei loro vissuti. La sola via d’accesso a una qualche saggezza inizia a partire da sé.

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