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Lettera da Roma

IMPRENDITORIALITÀ PIÙ SOCIALITÀ

PAOLO CREMONESI - 05/06/2015

giottoPer uno dei consueti paradossi che la politica ci regala, mentre a Bollate durante gli “Stati Generali delle carceri italiane” il tema lavoro dei detenuti era toccato solo marginalmente, a Regina Coeli esperti e responsabili di prigioni americane, tedesche,brasiliane si sono incontrati alcuni giorni fa a Roma per studiare il modello ‘Giotto’ in un convegno dal titolo “Carcere e lavoro: un dialogo internazionale su un approccio innovativo di riabilitazione”.

La cooperativa Giotto è presente nell’Istituto di detenzione Due Palazzi a Padova dal 1991. Sviluppa percorsi lavorativi per i detenuti tra cui: un call center che esegue centomila prenotazioni sanitarie all’anno per le USL e ventimila chiamate per una società bolognese di energia; un ormai famoso laboratorio di pasticceria che ‘sforna’ (è proprio il caso di dirlo) ottantamila panettoni e quindicimila colombe all’anno: produce quarantamila biciclette per un’azienda esterna; si occupa anche di piastrelleria e valigieria. Commenta Giovanni Maria Flick, presidente emerito della Corte Costituzionale: “Una impresa sociale che interagisce efficacemente con l’ amministrazione pubblica, coniugando imprenditorialità a socialità”.

Fermamente convinto del tema è il Presidente della Repubblica che in un messaggio scrive : “I positivi risultati raggiunti dalla cooperativa di Padova testimoniano l’importanza della collaborazione tra imprese sociali ed amministrazione pubblica”. “Un maggiore sviluppo della formazione in carcere – prosegue Mattarella – rappresenta il più valido strumento di emancipazione dalla reiterazione del reato”. L’ articolo 27 della Costituzione d’altronde recita: “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”.

Cuore del convegno la presentazione dello studio: “Lavoro e perdono dietro le sbarre” frutto della collaborazione tra Centro Studi Enti Ecclesiastici Università Cattolica, Fetzer Institute, Centro di ricerche Einaudi.

“Abbiamo scelto – spiega Andrea Perrone curatore della ricerca – di seguire attraverso le interviste un metodo qualitativo e non quantitativo, seguendo cioè i detenuti nel percorso di recupero della propria dignità e della ricostruzione dei legami familiari attraverso la possibilità di una occupazione”.

“Con il lavoro sto imparando a riflettere sulla realtà delle cose” dice per esempio un carcerato. Un altro aggiunge : “Esco alle 8 e 30 dalla cella, vi rientro alla 18 e 30. Per quelle ore non sono un detenuto ma un dipendente della cooperativa “. “Poter lavorare è la differenza tra un uomo morto ed uno vivo” conclude un terzo.

Che differenza dall’immagine che tanta cinematografia trasmette di un detenuto sdraiato in cella a guardare la sabbia di una ipotetica clessidra che separa dalla fine della pena! Eppure per la gran parte dei detenuti delle duecentocinque carceri italiani, quella è la realtà.

Stati Uniti, Germania, Brasile concordano. Quest’ultimo reduce da sanguinose rivolte in carcere come quella di Carandiru (quattrocento detenuti morti) ha avviato coraggiose riforme del sistema carcerario. “Ispirate – racconta il magistrato Luiz Carlos Rezene – ai principi della dottrina sociale cristiana”. Gli fa eco Jurgen Hillmer magistrato del Ministero di Grazia e Giustizia: “Dei sedici lander in cui è diviso il sistema penitenziale tedesco, quello che ha la percentuale più bassa di recidiva è ai confini con i Paesi Bassi ed è quello dove all’interno del carcere lavora il maggior numero di detenuti”.

Infine Thomas Dart in collegamento da Dallas: “Negli Stati Uniti – racconta – è in corso un dibattito molto vivace sul sistema carcerario. Abbiamo troppi detenuti due milioni e trecentomila. E costi troppo alti. Guardiamo perciò con interesse all’Italia ed alle sue esperienze di misure alternative”.

Paola Severino già ministro della Giustizia concorda sul fatto che il lavoro in carcere è la miglior ‘ricetta’ per tenere lontano un detenuto dal crimine. Sia perché insegna comunque una attività a chi termina la pena. Sia perché rafforza l’autostima delle persone grazie anche alle retribuzioni che ricevono. E racconta un aneddoto: “Incontro un pregiudicato nel carcere di Poggioreale che mi mostra commosso la foto del nipotino appena nato. Mi dice: ‘Ministro mi aiuti ad essere trasferito a Gorgona!’. E Gorgona è un carcere di massima sicurezza in un’ isola del mar Ligure. Gli rispondo: ‘Perchè vuoi andarci? Starai sicuramente peggio’. Risponde: ‘Perché lì almeno ti insegnano a diventare cuoco. Ed io voglio che il mio nipotino abbia un nonno cuoco e non un detenuto’.”.

O di Giotto. Per anni l’abbiamo insegnata come il cerchio perfetto. Forse è il caso di pensarla anche come ‘Occupazione’ perfetta.

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