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Economia

ITALIA, ECONOMIA IN RIPRESA

GIANFRANCO FABI - 18/09/2015

pil cineseIniziamo dalle buone notizie. L’economia italiana sembra essersi risvegliata: secondo le ultime stime la crescita del prodotto interno già quest’anno potrebbe avvicinarsi all’1%, l’export continua a segnare risultati positivi e qualche elemento di vivacità sembra venire anche dai consumi interni che erano stagnanti da almeno dieci anni. Anche l’occupazione lascia intravvedere i primi effetti dei nuovi contratti con oltre duecentomila posti di lavoro in più in luglio rispetto al 2014.

Segnali ancora limitati che fanno restare l’andamento dell’economia ancora lontano rispetto agli anni precedenti la crisi, ma che comunque vanno nella direzione giusta soprattutto se questo andamento sarà confermato nei prossimi mesi. In effetti in questa ripresa autunnale i fattori esterni positivi sembrano ancora determinanti. Lo scenario internazionale presenta infatti un basso prezzo del petrolio, tassi di interesse vicini allo zero, una forte disponibilità di capitali grazie alla politica espansiva della Banca Centrale Europea, una significativa svalutazione dell’euro rispetto al dollaro. Una congiunzione di elementi favorevoli che non si era praticamente mai verificata in passato e che in condizioni “normali” avrebbe favorito una crescita ben maggiore dell’attuale. Il problema è l’Italia non è da tempo in condizioni “normali” per una serie di elementi strutturali che hanno modificato negli anni le condizioni di fondo dell’economia.

In primo luogo un elemento da tutti sottovalutato è l’andamento demografico. In Italia nascono ogni anno la metà dei bambini che nascevano quarant’anni fa mentre nello stesso periodo la speranza di vita è aumentata di sette anni. Mezzo milione di nascite in meno vogliono dire meno consumi, meno esigenze abitative, meno dinamica sociale. L’aumento del numero degli anziani (e la loro positiva longevità) vuol dire comunque maggiore spesa pensionistica e sanitaria. La stagnazione demografica è la principale, purtroppo non l’unica, causa delle difficoltà che il sistema economico incontra per sostenere la crescita.

In secondo luogo vi sono i fattori legati all’operatività delle imprese: l’alto peso del fisco, la lentezza delle procedure amministrative, l’incertezza del diritto e l’insostenibile lentezza della giustizia civile sono tutti elementi che riduco la competitività delle imprese italiane sia sul fronte industriale che su quello commerciale. La dimostrazione, per esempio, è nel fatto che le grandi catene di vendita sono in gran parte controllate dall’estero: dall’Ikea a Carrefour, da Decathlon a Zara.

In questi ultimi mesi si è poi aggiunto un altro elemento di difficoltà: la frenata dei paesi emergenti che dovevano essere la principale locomotiva per l’economia globale. Nelle ultime settimane hanno creato forte preoccupazione, soprattutto sui mercati finanziari, le incertezze sulla capacità della Cina di mantenere ritmi di sviluppo capaci di spingere anche le esportazioni dei paesi occidentali. A metà agosto la Cina ha svalutato per tre volte la propria moneta nel giro di settantadue ore: una mossa che ha suscitato commenti perplessi e allarmati, con un giudizio peraltro almeno in parte condiviso dai mercati finanziari che, almeno nell’immediato, hanno accusato il colpo con vistose perdite. In effetti le scelte di Pechino sono state la dimostrazione della volontà dei dirigenti cinesi di sostenere la crescita dell’economia rendendo ancora competitive le esportazioni da molti mesi in perdita di velocità: e questo é stato colto come un segnale esplicito delle difficoltà che il grande paese asiatico sta incontrando nel sostituire almeno parzialmente la domanda estera, che è stata il traino della crescita negli ultimi vent’anni, con la domanda interna cioè con i consumi delle famiglie e gli investimenti delle imprese.
Proprio su quest’ultimo fattore puntavano e continuano a puntare molte imprese europee ed americane, soprattutto nei settori dei beni di lusso, settori che hanno fatto registrare negli ultimi anni crescite particolarmente rilevanti.
Le mosse cinesi hanno peraltro un’importante risvolto: significa che la Cina vuole progressivamente entrare nei meccanismi su cui si basa l’attuale, pur disordinato, sistema monetario internazionale. La moneta cinese non è più strettamente vincolata al dirigismo della banca centrale, ma avrà sempre di più un valore determinato dagli equilibri dei mercati. Questa novità è insieme una buona e una cattiva notizia. La buona notizia è che si dimostra sempre più insostenibile il teorema secondo cui sarebbe possibile realizzare un’economia libera e aperta in una società chiusa e centralistica. Quella cattiva è che un Paese con la forza economica e finanziaria della Cina rischierebbe di creare incertezze e instabilità se non riuscisse a mettere sotto controllo le forze della speculazione a breve termine. L’economia di mercato è un grande motore della crescita, ma senza adeguati strumenti di direzione e controllo si possono facilmente riprodurre i rischi che hanno portato alla crisi del 2008.
Il problema di fondo é se i dirigenti cinesi avranno la forza di capire che i mercati non richiedono direttive e forzature, ma hanno bisogno di regole e norme di comportamento, quelle peraltro che sono mancate negli stessi paesi occidentali, gli Stati Uniti innanzitutto.
La moneta continua ad essere uno strumento troppo delicato per essere lasciato nelle mani dei governi, ma nello stesso tempo l’economia è una realtà troppo importante per vedere crescita e posti di lavoro messi in difficoltà dai pirati della speculazione.
In questo difficile equilibrio si giocano le speranze della Cina di continuare sulla strada della crescita e dell’integrazione, anche monetaria, con l’economia globale. E le speranze dei paesi che una volta si chiamavano (e sono ancora) industrializzati come l’Italia, di poter contare su di un mercato di sbocco promettente come quello cinese, un mercato dove almeno cento milioni di persone (su un miliardo e 300mila) possono essere considerate appartenenti alla fascia medio-alta dei consumi.
Con un grande paradosso: le sorti del capitalismo occidentale sono legate quanto mai in passato alle scelte del più grande partito comunista mondiale.

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