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Stili di Vita

COLPA ED ERRORE

VALERIO CRUGNOLA - 14/07/2016

1933: Hitler vince le elezioni in Germania

1933: Hitler vince le elezioni in Germania

Non appena, poche settimane fa, è stato reso noto il sorprendente risultato del referendum circa la permanenza del Regno Unito in Europa, sono esplose a caldo alcune reazioni che, per la loro atipicità, inducono a riflettere in ambito filosofico. Ho letto di tutto. Amiche scozzesi dichiaravano di voler acquisire la doppia cittadinanza, scozzese e italiana, ripudiando quella britannica, garantita esclusivamente dalla monarchia.

I più malevoli imputavano la scelta della Brexit alla «ignoranza del popolino»: le elettrici e gli elettori avrebbero partecipato al voto completamente disinformati, incapaci di valutare la situazione nei suoi termini concreti, accecati da vecchi furori nazionalistici o da ancor più antichi e anacronistici isolazionismi. La frattura tra grandi aree metropolitane e aree rurali riapriva un’annosa questione che sembrava sepolta nel passato, quella del conflitto secolare tra città e campagna.

Altri accusavano invece i politici: uno, aduso a uno sfacciato impiego della demagogia, aveva mentito durante la campagna elettorale manipolando le coscienze con dati assolutamente falsi; un altro era stato imprudente a rimettere una questione così delicata nelle mani del popolo; un altro era stato troppo prudente, per non inimicarsi la classe operaia che fa da riferimento sociale al suo declinante partito; e nessuno aveva voluto ricordarsi di una coraggiosa deputata che era stata assassinata mentre si batteva per la giusta causa dell’Europa.

Qualcuno criticava la democrazia, o meglio il nefasto binomio tra fragilità della democrazia e rozzezza del popolo. Si è parlato di ritorno al diritto di voto ristretto, o di introduzione del voto ponderato, in virtù del quale il voto meditato di una persona istruita, colta, capace di giudizio e di classe medio-alta avrebbe dovuto pesare di più di quello delle plebi incolte, rabbiose e incapaci di giudizio. E quando si scoprì che i vecchi con il loro voto avevano deciso per i giovani un futuro che i diretti interessati si rifiutavano di volere, qualcuno propose di negare agli anziani il voto in tutte quelle materie che riguardavano un futuro dal quale sarebbero stati per forza di cose esclusi. Infine, quando emersero i clamorosi effetti della scelta sull’andamento delle borse, sul mercato valutario e sulla bilancia commerciale, cominciò una bizzarra ondata di pentimento. Nemmeno quella metà che aveva vinto era scesa nelle piazze con convinzione ed entusiasmo per festeggiare la vittoria che pure i loro leader avevano così fermamente voluto.

Insomma, si è parlato improvvisamente di «colpa politica» con relativa serietà: dopo un lungo abuso del concetto – ad esempio da parte di chi additava nella propensione italica alla creduloneria la «colpa» per la salita al potere di persone effettivamente improbabili come Berlusconi o Bossi –, a qualcuno parve di poterne fare un uso corretto. E tuttavia la recente vicenda del Regno Unito resta imparagonabile con quella della Germania del 1933-’45. Il concetto di colpa, in questo contesto, è del tutto inappropriato.

Non è appropriato, anzitutto, per quella metà della popolazione che avrebbe voluto restare in Europa. In Germania le minoranze che davanti all’estremo avevano osato contrapporsi apertamente a Hitler e al nazismo si potevano contare sulle dita di qualche decina di mani. La generalizzazione della colpa era inapplicabile persino in Germania, figurarsi nel Regno Unito 70 e più anni dopo. Ma non è solo una questione di ordine di grandezza nella distribuzione delle responsabilità.

Il concetto di colpa si impiega per solito solo davanti alla chiarezza inequivoca dei danni prodotti e alla consapevole volizione del male, anche soltanto in forma passiva. Nel comportamento di inglesi, gallesi, scozzesi e nordirlandesi non si poteva ravvisare una deliberata volontà malvagia, come quella dei nazisti e dei fascisti europei nei confronti di altri popoli o gruppi etnici. In assenza di una palese volizione del male, nemmeno i danni potevano essere indicati con certezza; e meno ancora potevano essere attribuiti con nettezza ad una parte che aveva il torto, al più, di aver votato male, con trascuratezza e scarsa cognizione delle cose, sospinta dalla pancia, dal ribollire delle viscere che offusca le menti e le induce a parole e ad atti estremistici, inconsulti, irriflessi, come ben sappiamo in Italia, da più di un secolo terra di ventura per ogni specie di populismo e di qualunquismo.

Il nazismo era stato sostenuto da scelte consapevoli di complicità attiva e passiva. Nessuno poteva dire: «Non sapevo quel che facevo», o «Non avevo capito quali fossero le conseguenze dei miei atti». Si può parlare di colpa collettiva solo in queste condizioni estreme. Nulla di tutto questo nel Regno Unito: il voto era opinabile, opinabili le sue conseguenze; nessuno desiderava il male di altri, al più ci si voleva sbarazzare di caste e potentati burocratici insediati stabilmente tra Bruxelles e Strasburgo, degli Juncker, per capirci: gruppi di potere autoreferenziali, lontani miliardi di anni luce dai popoli e prossimi invece, nel loro gravitare di pianeti e satelliti, alle grandi e invisibili centrali del potere finanziario internazionale.

La colpa collettiva è assente dagli scenari della democrazia. I processi decisionali non sono solo giudicabili in modi differenti. Non sono valutabili – questo è il punto – con certezza assoluta nei loro esiti. La democrazia non è padrona del futuro. Lo sono solo i regimi totalitari, come lo furono i nazifascismi o i comunismi in tutte le loro differenti declinazioni. La democrazia è fallibile di per se stessa, là dove i totalitarismi – almeno sulla carta – sono esenti dal problema diretto della fallibilità, perché agiscono calcolando le conseguenze invece di limitarsi a prevederle, senza doverne minimamente dar conto a terzi. Che poi anche le tirannidi siano esposte a fattori imponderabili è altro discorso, che non muta l’elemento analitico. La democrazia, quando funziona bene, è piena di errori emendabili, mentre scarseggiano le colpe con i loro danni irreversibili.

Peraltro, se vi fosse certezza nelle scelte, la democrazia sarebbe superflua. Semmai, proprio perché essa sembra molto più fallibile ora di qualche decennio fa, nel suo corpo ha preso piede un’insidia terribile, il decisionismo assoluto, il culto del capo: si spera di colmare i deficit dei processi decisionali democratici con l’idea che quanto più sono ristretti il numero e la qualità dei decisori e tanto più possono ridursi i margini e i ventagli di errore. Un capo sbaglia meno: e più sono ristretti gli ambiti decisionali e più egli può godere di una delega così ampia da farlo considerare praticamente infallibile. La democrazia sta conducendo ad una abdicazione della capacità di deliberazione da parte di fette consistenti di popolo che cessano di sentirsi, o di volersi, come parte del tradizionale «popolo sovrano». Si tratta di un’involuzione pericolosa, ma che non addita con questo colpe, piuttosto – semplicemente – «responsabilità»: quelle di chi non fa abbastanza per fermare questa involuzione, o non sa indirizzare le proprie scelte verso la terapia più originale, efficacie ed opportuna; e quelli di quanti ne profittano per degradarla ulteriormente, in vista di vantaggi per il proprio ceto politico o di scalate al potere (non importa se in sé disinteressate).

Parlare di responsabilità anziché di colpa non significa postulare l’assoluta innocenza della democrazia. L’azione scorretta di molti soggetti democratici (tra i primi l’informazione) è un fenomeno comune, che non deve essere però ritenuto fisiologico, come se fosse inscritto in un «gioco delle parti» che rende legittimo l’uso di alcuni strumenti di «combattimento» per la conquista del consenso. L’informazione alla verità è una delle tante utopie che rendono affascinante la democrazia liberale, ma che difficilmente si raggiungono in termini politici concreti.

Piuttosto, è da vedere se la responsabilità indiretta di chi semina vento per raccogliere tempesta sia configurabile come «colpa». E qui credo di sì: chi offende delle persone non tanto perché hanno un colore diverso della pelle, quanto perché appartengono a categorie sociali e culturali che si vogliono tenere ai margini, in stato di esclusione, sa bene che potrebbe armare la mano di qualcuno che decide di passare dalle parole ai fatti, dall’odio a parole all’odio agito. Se un dentista assurto ad una altissima carica istituzionale non avesse sdoganato il dileggio per una donna di colore bollandola come un «orango», se ogni giorno non ci fossimo abituati a sentire le contumelie razziste di un noto leader politico di modi tutt’altro che felpati, ben difficilmente un estremista di un piccolo centro delle Marche avrebbe potuto avere il coraggio prima di insultare come «scimmia» e poi di aggredire una donna nigeriana, una profuga che aveva passato tremende traversie per credersi finalmente in salvo nel nostro inaccogliente paese, e di uccidere a pugni il marito. Come Jaspers ci aiuta a notare, Calderoli o Salvini non sono giuridicamente colpevoli del delitto di Fermo: lo sono però sul piano politico, morale e metafisico. La nostra democrazia, rispetto a queste colpe, ha ancora margini di difesa. Che attivi però subito i suoi anticorpi, prima che sia tardi. Come sempre, dipende da noi, da noi soli.

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