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Chiesa

ESALTATI E UMILIATI

MASSIMO CRESPI - 11/02/2012

 In quel tempo. Il Signore Gesù disse ancora questa parabola per alcuni che avevano l’intima presunzione di essere giusti e disprezzavano gli altri: “Due uomini salirono al tempio a pregare: uno era fariseo e l’altro pubblicano. Il fariseo, stando in piedi, pregava così tra sé: “O Dio, ti ringrazio perché non sono come gli altri uomini, ladri, ingiusti, adùlteri, e neppure come questo pubblicano. Digiuno due volte alla settimana e pago le decime di tutto quello che possiedo”.
Il pubblicano invece, fermatosi a distanza, non osava nemmeno alzare gli occhi al cielo, ma si batteva il petto dicendo: “O Dio, abbi pietà di me peccatore”. Io vi dico: questi, a differenza dell’altro, tornò a casa sua giustificato, perché chiunque si esalta sarà umiliato, chi invece si umilia sarà esaltato”.
(Luca 18, 9-14)

Il Fariseo ed il Pubblicano, mosaico in S. Apollinare Nuovo, Ravenna

Gesù narra la parabola del pubblicano che nel pregare si umilia, a differenza del fariseo che si vanta di sé; generosamente, la racconta a coloro che presumono di essere uomini giusti, ma si esaltano mostrando superbia, come leggiamo nel Vangelo. Le parole del fariseo, rappresentante di questi ingiusti, non sembrano preghiere, ma solamente attestazioni di stima per se stesso insieme all’offesa nei riguardi del pubblicano. Diversamente l’uomo giusto, onesto con se stesso, sa di essere un peccatore bisognoso della continua pietà del Signore che lo libera dal male, e per questo lo prega con deferenza.

Vi sono dei segnali inconfondibili i quali permettono di identificare l’uomo iniquo, che si vanta nonostante le sue povertà; sono “l’intima presunzione” che possiede e il disprezzo per gli altri, il suo stare “in piedi”, il pregare “tra sé”. Viceversa vi sono chiari segnali identificativi della ricchezza dell’uomo giusto che si ferma “a distanza” dal tempio, che non osa “nemmeno alzare gli occhi al cielo”, ma si batte il petto. Vediamo di cogliere questi segni, se presenti nella nostra vita, perché ci permettano di correggerci per tempo, senza rischiare di impoverirci ulteriormente elogiandoci, vantandoci, invece di praticare le vie dell’umiltà a garanzia di ricchezza personale.

Essere presuntuosi nell’intimo va considerato rischioso perché fallace, soprattutto nel caso in cui la nostra presunzione di stare nel giusto pone gli altri nell’errore e li mette nella categoria di chi si inganna sempre, pecca, fa sicuramente male mentre noi crediamo di fare bene. Quante volte si considera la verità quale elemento posseduto per esclusiva, senza riflettere sul fatto che potrebbe sfuggirci qualcosa, che potremmo sbagliare e ingannarci, illuderci. Meglio presumere di conoscere la verità, la cosa giusta, solamente se ci viene rivelata da qualcuno che non può commettere errori: il Signore. Esiste la verità divina; lei sola non fallisce mostrandosi giusta. Poi conviene evitare di stare ritti di fronte a Dio, dimenticandosi che è lui che dona la materia, la forza che ci sorregge e lo spirito con il quale ci alziamo la mattina; perlomeno chiniamoci in segno di rispetto per colui che è l’autore del tutto, persino della nostra statura di uomini grandi. Infine, si preghi davvero, senza simulazione. Come è possibile pregare se ci rivolgiamo unicamente a noi stessi, facendolo “tra noi”? Sarebbe comico, oltre che patologico.

Invece, restiamo rispettosamente qualche passo distanti dal Signore, nell’attesa che ci risponda, gradendo così maggiormente la sua presenza, la sua forma, l’espressione, l’atteggiamento, oltre alla voce tanto desiderata, quando ci chiamerà ad alzare lo sguardo su di lui. Se desideriamo relazionarci con Dio, ci serve l’atto di chi si batte il petto, non tanto per infliggersi la punizione quanto per indicare che quel pugno, quel corpo, quel cuore posseduto, sarebbero solo pietra destinata a rovinare se Dio non ci rispondesse esaltandoci, cioè tirandoci su dalla terra polverosa dentro cui stiamo, per offrirci la dignità di cui godere per la vita.

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